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Lettere di compliance professionisti

Visto di conformità tributaristi: il Consiglio di Stato chiude la porta

19 Novembre, 2025

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La questione sembrava chiusa già l’estate scorsa, quando la Consulta aveva tracciato una linea netta. E invece qualcuno sperava ancora in un ripensamento. Niente da fare. Il Consiglio di Stato ha depositato nei giorni scorsi la sentenza numero 8962, che poi tanto sorprendente non è – diciamocelo. Quella prerogativa professionale, il visto di conformità sulle dichiarazioni fiscali, rimane appannaggio esclusivo di chi è iscritto agli ordini. Commercialisti, consulenti del lavoro. Gli altri no. I tributaristi dell’associazione Lapet ci avevano provato, s’erano rivolti prima al Tar della Puglia, poi in appello. Avevano anche fatto in modo che il Consiglio di Stato sollevasse questione di costituzionalità. Ma la Corte, lo scorso luglio con la sentenza 144/2024, aveva già dato la sua risposta. Ora la sezione settima del Consiglio di Stato rimette tutto in ordine, in qualche modo. Conferma quanto già stabilito dalla Consulta e chiude, almeno sul piano amministrativo, una vicenda che si trascinava da tempo. Non che l’associazione Lapet abbia intenzione di arrendersi: parlano già di ricorso urgente alla Corte di giustizia europea. Vedremo.

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🕒 Cosa sapere in un minuto

La decisione del Consiglio di Stato

  • Con sentenza n. 8962 del 17 novembre 2025, Palazzo Spada conferma quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale: il visto di conformità sulle dichiarazioni fiscali resta riservato esclusivamente alle professioni ordinistiche
  • Respinto definitivamente il ricorso dell’associazione tributaristi Lapet che contestava l’illegittimità della riserva prevista dall’art. 35, comma 3, del D.Lgs. 241/97
  • La sentenza recepisce la pronuncia della Consulta n. 144/2024 che aveva già dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità sollevate

Chi può rilasciare il visto di conformità

  • Dottori commercialisti ed esperti contabili iscritti all’albo professionale
  • Consulenti del lavoro regolarmente iscritti al proprio ordine
  • Ragionieri e periti commerciali abilitati all’esercizio della professione
  • Soggetti iscritti nei ruoli camerali entro il 30 settembre 1993 (categoria ormai ad esaurimento)
  • Esclusi i tributaristi e tutte le professioni non ordinistiche, anche se organizzate in associazioni riconosciute

Le ragioni dell’esclusione

  • L’elenco dei soggetti abilitati ha carattere tassativo e non ammette interpretazioni estensive
  • Il visto di conformità serve a tutelare un interesse pubblico legato all’efficienza dei controlli fiscali e all’accertamento tributario
  • Solo le professioni ordinistiche garantiscono requisiti di affidabilità attraverso esami di abilitazione, vigilanza disciplinare pubblica e appartenenza obbligatoria agli ordini
  • Permane una differenza ontologica tra professioni ordinistiche e non ordinistiche: la legge n. 4/2013 non ha equiparato le due categorie
  • Gli ordini professionali sono enti pubblici con poteri disciplinari, mentre le associazioni come Lapet sono organismi privatistici senza analoghi poteri

Conseguenze pratiche

  • I tributaristi possono continuare a svolgere consulenza fiscale, preparare dichiarazioni e trasmetterle telematicamente
  • Restano però esclusi dall’apposizione del visto necessario per compensare crediti IVA superiori a 5.000 euro annui
  • Per queste operazioni i contribuenti seguiti da tributaristi devono rivolgersi a commercialisti o consulenti del lavoro
  • L’associazione Lapet annuncia ricorso urgente alla Corte di Giustizia UE invocando violazione della libera concorrenza

Una battaglia lunga anni sul visto di conformità

La storia parte da lontano. L’associazione dei tributaristi, insieme a un’iscritta, aveva chiesto al Tar pugliese di dichiarare illegittimo l’articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 241 del 1997. Quella norma lì che stabilisce chi può mettere il timbro sulle dichiarazioni dei redditi e IVA. Secondo i ricorrenti la riserva a favore di commercialisti e consulenti non stava più in piedi. Non dopo l’introduzione della legge 4 del 2013, quella che aveva dato finalmente dignità formale alle professioni non organizzate in ordini. L’idea era che ora, con quella legge, anche i tributaristi offrissero garanzie sufficienti in termini di controllo deontologico, sia pure attraverso strutture private anziché enti pubblici.

La tesi, va detto, aveva una sua logica apparente. I tributaristi sostenevano che la riserva limitasse la loro libertà di iniziativa economica, falsasse la concorrenza. E in effetti è vero che molti contribuenti finiscono per rivolgersi ai professionisti iscritti agli ordini anche solo per farsi preparare la dichiarazione, dal momento che poi solo loro possono apporre il visto. Una sorta di sviamento di clientela strutturale, insomma.

Il percorso giudiziario attraverso tre gradi

Il Tar rigetta il ricorso. In appello, però, il Consiglio di Stato (siamo a gennaio 2024) solleva dubbi di costituzionalità. Rimette gli atti alla Consulta con un’ordinanza – la 995 – che lasciava intendere qualche perplessità sulla ragionevolezza della riserva. Lì dentro si parlava di potenziale limitazione della concorrenza, di evoluzione del quadro normativo con la legge 4/2013. Per qualche mese sembra che la questione possa riaprirsi davvero.

Poi arriva la sentenza della Corte costituzionale di luglio. Una chiusura secca, netta. I giudici delle leggi dicono che no, quella riserva non presenta profili di incostituzionalità. L’apposizione del visto di conformità non è un’attività professionale come le altre, spiegano. È qualcosa che riguarda l’interesse pubblico, l’efficienza dei controlli fiscali. Serve l’affidabilità che solo le professioni ordinistiche possono garantire.

Le ragioni tecniche di una esclusione contestata

Il Consiglio di Stato riprende ampi stralci della pronuncia costituzionale nella sentenza 8962 depositata il 17 novembre scorso. Prima cosa: niente interpretazioni estensive. L’elenco dei soggetti abilitati è tassativo. Articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 241/97, combinato con l’articolo 3, comma 3, del DPR 322/98. Punto. Non si può allargare la platea per via interpretativa, nemmeno volendo.

Il visto di conformità, spiega il Consiglio di Stato riprendendo quanto già chiarito dalla Consulta, non si riduce alla semplice predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni. Non è questione di tenere le scritture contabili o mandare i file telematici. È un’attività che serve ad agevolare e rendere più efficiente l’esercizio dei poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria. Chi lo appone si assume una responsabilità precisa nei confronti dell’erario. C’è un interesse pubblico da tutelare, ed è per questo che la norma riserva l’attività solo a chi è iscritto a ordini professionali istituiti per legge, con appartenenza necessaria.

Secondo Il Consiglio di Stato questi professionisti sono gli unici in grado di fornire adeguate garanzie di qualità della prestazione intellettuale e di affidabilità nei rapporti con il Fisco. I commercialisti, ad esempio, devono superare un esame di abilitazione. Sono sottoposti a vigilanza disciplinare da parte di enti pubblici. Possono essere sospesi, radiati. Tutta un’altra storia rispetto alle associazioni privatistiche dei tributaristi, per quanto serie e organizzate possano essere.

Le differenze strutturali tra ordini e associazioni professionali

Qui sta il cuore della questione. Il Consiglio di Stato ribadisce che permane una differenza ontologica – proprio così, ontologica – tra professioni ordinistiche e professioni non ordinistiche. La legge 4/2013 non ha affatto comportato un’equiparazione tra le due categorie. Ha dato dignità e riconoscimento alle professioni non organizzate, certo, ma senza metterle sullo stesso piano di quelle ordinistiche. Le differenze restano eccome.

Gli ordini professionali sono enti pubblici, con obbligo di iscrizione per chi vuol esercitare. Le associazioni come Lapet sono organismi privati, l’adesione è volontaria. Gli ordini hanno potere disciplinare vero, possono irrogare sanzioni fino alla radiazione. Le associazioni al massimo possono espellere un socio, ma quello può continuare tranquillamente a lavorare. Diverso anche il controllo deontologico: gli ordini vigilano per conto dello Stato, le associazioni si danno codici etici interni che restano su un piano privatistico.

Per questo motivo – conclude Il Consiglio di Stato – è escluso che la riserva legislativa del rilascio del visto sia discriminatoria nei confronti dei tributaristi. Non c’è discriminazione quando il trattamento diverso è giustificato da oggettive differenze di status e di garanzie offerte. I tributaristi sono una professione non ordinistica, soggetta a un trattamento normativo che non è assimilabile a quello delle professioni ordinistiche. Fine della discussione, almeno per ora.

Tabella comparativa: professioni ordinistiche vs non ordinistiche

Caratteristica Professioni ordinistiche Professioni non ordinistiche
Natura dell’ente Ordini professionali (enti pubblici) Associazioni private
Iscrizione Obbligatoria per esercitare Volontaria
Accesso Esame di Stato Nessun esame obbligatorio
Vigilanza Pubblica, da parte dello Stato Privata, interna all’associazione
Potere disciplinare Sanzioni fino alla radiazione Espulsione dall’associazione
Codice deontologico Vincolante per legge Vincolante solo per gli associati
Effetti della radiazione Impossibilità di esercitare Possibilità di continuare l’attività
Abilitazione al visto Sì (commercialisti, consulenti lavoro) No (tributaristi)
Riferimento normativo Varie leggi istitutive degli ordini Legge n. 4/2013

I risvolti pratici: compensazioni IVA e dichiarazioni integrate

Nella pratica quotidiana questo significa che i tributaristi possono continuare a svolgere consulenza fiscale, preparare dichiarazioni, trasmetterle telematicamente. Ma quando si tratta di compensare crediti IVA sopra i 5.000 euro annui, oppure di accedere a determinate procedure accelerate, serve il visto di conformità. E lì devono fermarsi, chiamare un commercialista o un consulente del lavoro.

Una situazione che effettivamente crea qualche distorsione di mercato. Il contribuente che si affida a un tributarista per la contabilità deve poi rivolgersi a un altro professionista solo per il visto. Oppure, più spesso, preferisce affidarsi direttamente a chi può fare tutto. Si capisce perché i tributaristi parlino di sviamento di clientela. Ma evidentemente il legislatore e ora anche i giudici ritengono che l’interesse pubblico al controllo fiscale prevalga su queste considerazioni di concorrenza professionale.

Prendiamo un caso pratico. Un’impresa individuale chiude l’anno con un credito IVA di 50.000 euro. Vuole utilizzarlo in compensazione orizzontale per pagare contributi INPS e ritenute fiscali. Secondo la normativa vigente, se il credito annuale supera i 5.000 euro, quella compensazione può avvenire solo dopo che un soggetto abilitato abbia apposto il visto di conformità sulla dichiarazione IVA. Il tributarista che ha seguito tutta la contabilità, che conosce perfettamente la situazione aziendale, non può apporre quel visto. Deve intervenire un commercialista o un consulente del lavoro, che magari vedono le carte per la prima volta solo in quel momento.

Le reazioni alla sentenza definitiva del Consiglio di Stato

Il Consiglio nazionale dei commercialisti ha accolto la pronuncia con soddisfazione. Si era costituito in giudizio con intervento ad opponendum – il ricorso dei tributaristi era formalmente contro l’Agenzia delle Entrate – proprio per tutelare l’interesse della categoria. Elbano de Nuccio, presidente del Consiglio nazionale, parla di una sentenza che conferma il valore della professione nel garantire affidabilità e correttezza nei rapporti con l’amministrazione finanziaria.

La Lapet, dal canto suo, non ci sta. Roberto Falcone, presidente dell’associazione, annuncia battaglia. Promettono un ricorso urgente alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sostenendo che la normativa italiana violi i principi comunitari di libera concorrenza e libertà di prestazione dei servizi. Secondo i tributaristi la riserva italiana contrasterebbe con gli articoli 56 TFUE (libera prestazione dei servizi) e con la direttiva 2006/123/CE sul mercato interno dei servizi.

La questione europea potrebbe effettivamente aprire scenari nuovi. In passato la Corte di Lussemburgo ha più volte censurato normative nazionali che riservavano attività professionali senza adeguata giustificazione. Bisognerà vedere se il giudice europeo riterrà proporzionata la riserva italiana, considerando le specificità dell’attività di controllo fiscale. Non è detto che vada come sperano i tributaristi – la giurisprudenza comunitaria riconosce agli Stati ampi margini quando si tratta di tutelare l’erario – ma una carta da giocare ce l’hanno ancora.

La categoria ad esaurimento dei periti camerali

Vale la pena ricordare che esisteva, ed esiste ancora anche se ormai residualmente, un’altra categoria abilitata al visto: i periti ed esperti iscritti nei ruoli tenuti dalle camere di commercio. Ma solo quelli iscritti entro il 30 settembre 1993. Una categoria che si va progressivamente esaurendo, destinata a scomparire per naturale avvicendamento generazionale.

I tributaristi avevano provato a usare questa categoria come termine di paragone. Se sono abilitati loro, perché non anche noi? Ma il Consiglio di Stato respinge l’argomento. Si tratta di una situazione speciale, dice, che non può costituire base per una denuncia di discriminazione. È una categoria ad esaurimento, non più alimentata, frutto di una scelta legislativa transitoria che non può essere estesa analogicamente.

Quali prospettive per il futuro della professione tributarista

Resta il fatto che i tributaristi si trovano in una posizione professionale particolare. Possono svolgere molte attività di consulenza fiscale, ma restano esclusi da alcune prerogative significative. Non possono fare il visto di conformità, non possono essere sindaci di società di capitali (riservato ai commercialisti), non possono certificare i bilanci. Attività tutte che richiedono iscrizione a un ordine professionale.

La legge 4/2013 ha dato loro un riconoscimento formale, sì, ma non quello sostanziale che speravano. Le associazioni professionali regolamentate dalla legge 4 restano enti privati, senza i poteri pubblici degli ordini. E questo, secondo la giurisprudenza consolidata, fa la differenza quando si tratta di attività che coinvolgono l’interesse pubblico.

Qualche apertura potrebbe venire dal legislatore. In passato sono state presentate proposte di legge per allargare la platea dei soggetti abilitati al visto. Nessuna è andata in porto, anche per l’opposizione ferma dei commercialisti. Ma la partita politica non è del tutto chiusa. Se i tributaristi riusciranno a mobilitare consenso parlamentare, potrebbero ottenere per via legislativa quello che i giudici gli hanno negato.

Nel frattempo, però, la situazione rimane quella definita dalla sentenza 8962. Il visto di conformità resta riservato alle professioni ordinistiche. I tributaristi possono continuare a svolgere consulenza, ma quando serve quel timbro devono passare la palla ad altri. E questa, bisogna riconoscerlo, resta una limitazione significativa per chi fa della consulenza fiscale la propria attività principale.

La partita europea potrebbe cambiare le carte in tavola, ma i tempi saranno comunque lunghi. Un ricorso alla Corte di giustizia richiede anni per arrivare a sentenza. E nel frattempo tutto rimane come stabilito da questa pronuncia del Consiglio di Stato. Una pronuncia che, al di là delle polemiche, ha il merito di fare chiarezza su una questione che si trascinava da tempo e creava incertezze operative.

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