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Inerenza dei costi d’impresa: la recente evoluzione della giurisprudenza di Cassazione

15 Maggio, 2025

La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di inerenza dei costi d’impresa sta delineando un orientamento consolidato ma con evidenti contraddizioni. Da un lato, i giudici sembrano finalmente aver abbandonato la vecchia concezione che legava l’inerenza a una diretta correlazione con specifici ricavi. Dall’altro, persistono criticità significative sul tema dell’onere della prova, con un approccio che rischia di penalizzare ingiustamente il contribuente.

Il nuovo volto dell’inerenza: oltre la correlazione costo-ricavo

Dall’esame delle numerose pronunce emanate lo scorso aprile (ordinanze nn. 8700, 8704, 8801, 8922, 9132, 9159, 9160, 9568 e 9569), emerge un quadro interpretativo che merita attenzione. I giudici di legittimità hanno ormai abbandonato la concezione restrittiva che legava l’inerenza alla produzione di specifici ricavi, abbracciando una visione più ampia e moderna.

Oggi l’inerenza viene intesa – correttamente – come riferibilità del costo all’attività d’impresa nel suo complesso, anche in via indiretta, potenziale o persino in proiezione futura. Questo rappresenta un significativo passo avanti rispetto al passato, quando prevaleva un’interpretazione più angusta che rischiava di limitare eccessivamente la deducibilità dei costi.

Va dunque in pensione – e non è un dettaglio da poco – quella prassi amministrativa che qualificava un costo come inerente solo se collegato a un’attività generatrice di ricavi o altri proventi positivi. Tale correlazione, in realtà, è prevista dall’art. 109, comma 5, del TUIR, ma per tutt’altra finalità: l’imputazione temporale dei costi già riconosciuti come inerenti.

La valutazione qualitativa e le spese “improduttive”

Nella valutazione dell’inerenza, i giudici hanno chiarito che non serve riscontrare un nesso di causalità diretta tra il costo sostenuto e l’attività esercitata. Questo aspetto – spesso trascurato nella pratica accertativa – è di fondamentale importanza.

Come si legge nelle ordinanze citate, i concetti aziendalistici e civilistici di “spesa” non sono necessariamente legati a quelli di “utilità” o “vantaggio”. Ne deriva che – e questa è forse la novità più rilevante – devono considerarsi inerenti anche quei costi che non risultano immediatamente “profittevoli” per l’impresa.

Pensiamo, ad esempio, a spese che non comportano un aumento del fatturato, o non determinano un ampliamento del mercato, o non incrementano la clientela. Nella prassi applicativa succede spesso che questi costi vengano contestati dall’Amministrazione finanziaria, ma l’orientamento della Cassazione chiarisce che anche tali costi possono (anzi, devono) essere considerati inerenti.

L’irrazionale applicazione ai gruppi societari

Qui però emerge la prima evidente contraddizione. L’interpretazione estensiva dell’inerenza sembra valere solo per le imprese che operano come single entity.

Infatti – e chi si occupa di gruppi societari lo sa bene – quando si tratta di costi infragruppo la musica cambia. Nei casi in cui la società capofila fornisce servizi o cura attività di interesse comune, ripartendone i costi tra le società del gruppo, la Cassazione (cfr. ordinanza n. 9132/2025) continua a subordinare la deducibilità alla prova dell’inerenza non solo rispetto all’attività della società figlia, ma anche al “reale vantaggio” che ne sia derivato.

Questa disparità di trattamento non ha, francamente, alcuna giustificazione logica o normativa.

I limiti al sindacato dell’Amministrazione finanziaria

Un altro aspetto cruciale – su cui la giurisprudenza sembra ormai attestata – riguarda i confini del sindacato amministrativo. Il controllo dell’Amministrazione finanziaria non dovrebbe mai spingersi fino alla verifica della necessità o dell’opportunità di sostenere determinati costi.

Se così fosse, si consentirebbe all’Amministrazione di entrare nel merito delle scelte aziendali, che sono e rimangono di esclusiva competenza dell’imprenditore. Si realizzerebbe, in altri termini, un controllo svincolato dai presupposti sostanziali e procedurali degli accertamenti in tema di abuso del diritto.

D’altronde – vale la pena ricordarlo – nessuna disposizione normativa autorizza il Fisco a valutare l’incidenza del costo nella determinazione quantitativa del ricavo. Al contrario, l’art. 85, comma 1, lett. a)-e) del TUIR, definendo il “ricavo” come “corrispettivo”, ancora la tassazione al prezzo effettivamente pattuito tra le parti, anche quando questo appaia sproporzionato, fuori mercato o antieconomico.

L’antieconomicità: indizio di inesistenza, non di ininerenza

Un punto fondamentale, che merita di essere sottolineato, riguarda la valutazione dei costi apparentemente antieconomici. Posto che ai fini dell’inerenza occorre vagliare solo il potenziale “qualitativo” di ogni spesa, i costi non possono essere riconosciuti deducibili o detraibili solo parzialmente.

L’antieconomicità – è bene chiarirlo – non esclude l’inerenza rispetto all’attività d’impresa. Può, invece, rappresentare un indice rivelatore dell'”inesistenza di passività dichiarate”, da accertare ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973.

In altri termini, l’antieconomicità può essere un indizio non tanto del difetto di inerenza, quanto della patologia del costo stesso. L’Amministrazione finanziaria ha certo il potere di contestare tale aspetto, ma solo in presenza di altri indizi gravi, precisi e concordanti di inesistenza delle operazioni sottostanti.

La controversa questione dell’onere della prova

Ed ecco il punto più problematico dell’attuale giurisprudenza. Al di fuori dei casi in cui è contestata l’effettività del costo, il difetto di inerenza dovrebbe essere sempre oggetto di prova da parte dell’Amministrazione finanziaria – prima di tutti a sé stessa.

Non si dimentichi che l’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 richiede espressamente che l’avviso di accertamento sia motivato anche in relazione alle “ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni”.

Eppure – qui sta il problema – la Cassazione continua a ritenere che l’onere della prova dell’inerenza gravi sul contribuente, considerato più “vicino alla prova” e nelle condizioni migliori per assolverla.

Secondo questa impostazione, spetterebbe al soggetto passivo l’onere di allegare la documentazione di supporto e di dimostrare la ragione e la coerenza economica della spesa. Ma così facendo si finisce per sgravare l’Amministrazione finanziaria dal compito di giustificare la sua ripresa a tassazione.

Il nuovo standard probatorio: spesso ignorato

Questo orientamento, a ben vedere, si pone in aperto contrasto con l’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 546/1992, che impone all’Amministrazione di “prova[re] in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. Una prova che, per essere valida, deve risultare effettiva, coerente e sufficientemente circostanziata.

Nelle pronunce di aprile, i giudici hanno tentato di aggirare l’ostacolo, sostenendo che tale standard probatorio “né letteralmente né sistematicamente, squalifica le presunzioni anche non legali” (ordinanze nn. 9159/2025 e 9160/2025).

Ma questa interpretazione appare piuttosto forzata. In realtà, l’art. 7, comma 5-bis, nel richiedere che il fondamento della pretesa sia provato “in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, ammette l’applicazione delle sole presunzioni legali che – in quanto eccezioni – invertono l’ordinaria regola di riparto dell’onere probatorio.

La regola generale, dunque, non può che essere quella secondo cui l’onere di prova grava sull’Amministrazione finanziaria che intende contestare la deducibilità dei costi.

Una diversa impostazione difensiva

In definitiva, sul contribuente non dovrebbe gravare alcun onere probatorio, neppure quando l’Amministrazione finanziaria ricorre a presunzioni semplici per contestare il difetto di inerenza.

In tali casi, infatti, la difesa può validamente concentrarsi sull’inattendibilità o illogicità del ragionamento inferenziale utilizzato dall’Amministrazione, senza necessità di fornire la prova positiva dell’inerenza.

E se – come spesso accade nella prassi – il ragionamento inferenziale non risulta sufficientemente circostanziato e puntuale, il giudice dovrebbe ritenere la contestazione del Fisco priva di fondamento, a prescindere dall’eventuale controprova offerta dal contribuente.

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