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Vantaggio fiscale da falsa fatturazione: quando si divide a metà tra le parti

21 Novembre, 2025

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La Corte di Cassazione, attraverso la recente ordinanza n. 29299/2025 della Sezione tributaria depositata il 5 novembre 2025, ha fornito chiarimenti definitivi su una questione che ricorre frequentemente nel contenzioso tributario: come si distribuisce il beneficio economico derivante dall’emissione di fatture per operazioni inesistenti tra il soggetto cedente e il soggetto cessionario. La pronuncia rappresenta un orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di accertamento basato su presunzioni tributarie e inversione dell’onere della prova.

🕒 Cosa sapere in un minuto

La ripartizione presunta

  • Il beneficio economico di fatture inesistenti si presume diviso al 50% tra emittente e utilizzatore
  • Si tratta di una presunzione semplice, non di verità assoluta
  • L’onere della prova della diversa ripartizione ricade sul contribuente

Fondamento normativo

  • La Cassazione fonda il criterio su principi del diritto positivo: comunione di beni, responsabilità solidale in società di persone
  • L’accertamento può poggiare su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti
  • Non è richiesta all’amministrazione una prova certa, ma presuntiva e coerente

Strategie difensive

  • La regolarità formale (fatture corrette, traccia bancaria, registrazioni) non è sufficiente
  • Occorrono elementi extrinseci: prove dell’effettiva prestazione, ricostruzioni operative, testimonianze
  • La diligenza ordinaria richiede verifiche sulla affidabilità del fornitore e coerenza della prestazione
  • Possibilità di vittoria se si prova una ripartizione effettivamente diversa dal 50%

Imposte interessate

  • IRES (imposte dirette) e IVA: il principio si applica pienamente
  • IRAP: il raddoppio dei termini non si applica, essendo la norma priva di sanzioni penali
  • Contestazioni possibili anche per periodi pregressi qualora il termine di decadenza non sia scaduto

Criterio della divisione paritaria

Quando si contestano fatture emesse per operazioni inesistenti, emerge un interrogativo che tocca direttamente i contribuenti: chi beneficia davvero del vantaggio? L’ordinanza n. 29299/2025 della Sezione tributaria fornisce una risposta che appare sorprendente a molti operatori del settore. Se non provato diversamente dal contribuente interessato, il vantaggio fiscale derivante dalla falsa fatturazione si presume sia stato acquisito in parti uguali tra colui che ha redatto il documento e colui che lo ha utilizzato. Si tratta, dunque, di una ripartizione al 50%, un criterio che sposta in modo rilevante l’onere della prova sulle spalle di chi contesta l’operazione davanti ai giudici tributari.

Presunzioni semplici e basi probatorie nel contenzioso tributario

L’ufficio finanziario non è tenuto a fornire prove definitive, dal momento che l’accertamento tributario—tanto per le imposte dirette quanto per l’imposta sul valore aggiunto—può poggiare su presunzioni di carattere semplice. Tuttavia, queste presunzioni devono possedere precisi requisiti: devono essere gravi, devono risultare precise, e—aspetto cruciale—devono essere mutuamente concordanti. È fondamentale che convergano verso una medesima conclusione, non che si contraddicano. La mancanza di quest’ultimo elemento può facilmente compromettere tutta la costruzione accusatoria dell’amministrazione.

La ripartizione equipartita ha fondamenti nel diritto positivo

Qui emerge un dettaglio affatto marginale. La Corte non ha inventato il criterio: lo ha tratto da principi già presenti nell’ordinamento. Quando una comunione di beni esiste senza patto particolare—ad esempio, tra coniugi—la legge presume che ciascuna quota sia uguale. Allo stesso modo, qualora vi sia comunione legale, le quote si presumono identiche. Analogo ragionamento vale per i soci di una società di persone: in mancanza di diversa disciplina, le responsabilità verso i creditori si dividono equamente. Secondo la Cassazione, questi principi costituiscono un appoggio solido, nel diritto positivo appunto, per giustificare la ripartizione equipartita del vantaggio che scaturisce dall’emissione di fatture inesistenti.

Chi deve provare il contrario?

Qui si colloca l’inversione dell’onere della prova, aspetto tutt’altro che accademico. Una volta che l’agenzia delle entrate presenta elementi presuntivi che soddisfano i tre criteri (gravità, precisione, concordanza), l’atto di accertamento trova una base legittima. Il contribuente—sia emittente che utilizzatore della faltura falsa—non può limitarsi ad affermare che le cose sono andate diversamente. Deve fornire prove concrete, esterne, capaci di demolire quella presunzione semplice, dimostrando, cioè, che la divisione del vantaggio è stata asimmetrica. Se ad esempio uno dei due soggetti ha ottenuto il 70% e l’altro il 30%, oppure se uno solo ha tratto benefici mentre l’altro no: questi sono elementi che devono essere provati dal contribuente stesso.

Una questione di pratica amministrativa e orientamenti

La precedente giurisprudenza, anni prima, aveva già creato linee di demarcazione su questo terreno. Considerazioni sulla ragionevolezza del criterio, sulla compatibilità con principi generali dell’ordinamento tributario, sulla congruità rispetto alla concreta fattispecie: tutto confluisce in questo orientamento. Non è raro che l’amministrazione finanziaria, durante i controlli, rilevi una serie di documenti commerciali apparentemente regolari, accompagnati da tracciabilità bancaria, eppure risultati fittizi quando sottoposti a indagini più penetranti.

Il caso concreto: il percorso giudiziale

Uno scenario su cui la Cassazione si è espressa riguardava una società cooperativa. L’agenzia aveva emesso avvisi per imposte dirette e iva relativi a un periodo pluriennale, contestando l’emissione di fatture verso un’altra struttura cooperativa, per operazioni che l’ufficio riteneva, appunto, inesistenti. La commissione tributaria provinciale e quella regionale avevano, in fasi successive, interpretato diversamente la portata della prova. L’ordinanza della Corte suprema ha però affermato che il criterio di ripartizione al 50% era corrretto, e che il contribuente doveva fornire la controproprova della diversa suddivisione.

Implicazioni pratiche e comportamenti difensivi

Per i professionisti che assistono aziende sottoposte a controllo, il messaggio è tanto chiaro quanto impegnativo. Non basta esibire documentazione formalmente in ordine: fatture con intestazione, numero di protocollo, dati fiscali corretti, registrazioni in contabilità generale, addirittura traccia bancaria del pagamento. L’amministrazione dispone di uno strumento presuntivo di grande forza. Chi intende opporsi deve portare elementi che escano dal perimetro strettamente documentale: ricostruzioni di flussi operativi, testimonianze, elementi gestionali che dimostrino l’effettiva esecuzione di ciò che la fattura asserisce. È una strada in salita, prevalentemente in capo al contribuente.

Il ruolo della diligenza nell’acquisizione delle prestazioni

Quando un’impresa riceve una fattura da un fornitore, l’ordinamento tributario presume comunque una certa responsabilità. Non è sufficiente, secondo la giurisprudenza consolidata, verificare l’aspetto esteriore della documentazione. La diligenza ordinaria di un imprenditore accorto richiederebbe controlli ulteriori: coerenza della prestazione con l’attività dell’impresa, affidabilità nota del fornitore, compatibilità con i cicli produttivi o gestionali, eventualmente riscontri diretti. L’assenza di queste verifiche non è irrilevante quando il fisco solleva contestazioni.

Quali scenari rimangono aperti

Non ogni ricorso è stato definitivamente liquidato. Sussistono margini per chi riesce a provare condotte davvero diverse, comportamenti che effettivamente si discostano dal modello presuntivo della divisione equa. Inoltre, la buona fede del cessionario (ossia di chi ha ricevuto e utilizzato il documento) mantiene una certa rilevanza teorica, sebbene in pratica sia difficile dimostrarla quando l’operazione è stata qualificata come inesistente. La distinzione classica tra operazioni oggettivamente inesistenti e operazioni soggettivamente inesistenti continua ad avere importanza per altre finalità processuali.

Riflessioni conclusive: il sistema che emerge

La posizione espressa dalla Cassazione segna un rafforzamento del potere di controllo dell’amministrazione tributaria per combattere una pratica—l’emissione di fatture fittizie—fra le più diffuse e dannose dal punto di vista del gettito fiscale. Il ricorso a presunzioni semplici, radicate però in principi consolidati dell’ordinamento (comunione, responsabilità solidale, ecc.), fornisce un appiglio normativo considerevole. Dal lato dei contribuenti, la strategia difensiva deve necessariamente evolversi: dalla semplice documentazione formale a una ricostruzione complessiva delle operazioni, con elementi extrinseci capaci di vincere la presunzione legale.

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