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Strumenti probatori nel fallimento: non solo bilanci depositati

15 Maggio, 2025

Novità importanti sul fronte della prova nel processo fallimentare. La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 10576/2025 depositata lo scorso 23 aprile, ha finalmente fatto chiarezza su un tema che, nella pratica, crea non poche difficoltà agli operatori: l’utilizzo di documenti diversi dai bilanci per contestare la sussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità.

La vicenda processuale: quando la forma rischia di prevalere sulla sostanza

Il caso esaminato dalla Cassazione – va detto subito – è piuttosto comune nella casistica fallimentare. Una società di capitali in liquidazione aveva impugnato la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal Tribunale di Monza. Tra i motivi di doglianza, la società lamentava il mancato superamento delle soglie dimensionali ex art. 1, comma secondo, l. fall.

La Corte d’Appello di Milano, però, aveva respinto il reclamo ritenendo che la società non potesse ritenersi esonerata dall’onere probatorio per il fatto di non aver depositato i bilanci dal momento della messa in liquidazione, avvenuta nel corso dell’esercizio 2011.

Una decisione, questa, che riflette un orientamento piuttosto diffuso nei tribunali di merito, secondo cui la mancata produzione di bilanci regolarmente depositati costituirebbe di per sé inadempimento all’onere della prova circa l’insussistenza dei requisiti dimensionali. Ma è davvero così?

Il principio affermato: un approccio più elastico e concreto

La Cassazione risponde di no. E lo fa con un’argomentazione che merita attenzione.

“Nel procedimento per la dichiarazione di fallimento – si legge nell’ordinanza – il debitore può fornire la prova dell’insussistenza dei presupposti soggettivi di cui all’articolo 1, comma 2 della legge Fallimentare anche con strumenti probatori alternativi ai bilanci depositati degli ultimi tre esercizi, bilanci che costituiscono fonte privilegiata ma non esclusiva dell’assolvimento del relativo onere della prova”.

Un principio che, a ben vedere, segna un’evoluzione della giurisprudenza in senso più sostanzialista. È opportuno notare, infatti, come la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1 l. fall. – che sottrae all’area della fallibilità gli imprenditori “sotto-soglia” – non prescrive affatto l’obbligatorietà dei bilanci come unico mezzo di prova ammissibile.

Cosa dice (e cosa non dice) la legge fallimentare

Ma facciamo un passo indietro. L’art. 1, secondo comma, l. fall. individua come soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale (esclusi gli enti pubblici) purché abbiano superato congiuntamente determinate soglie dimensionali.

Queste soglie – che vengono periodicamente aggiornate con decreto ministeriale in base alle variazioni ISTAT – prevedono che l’imprenditore: i) abbia avuto, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore), un attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a 300mila euro; ii) abbia realizzato ricavi lordi annui non superiori a 200mila euro; iii) abbia un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a 500mila euro.

Ma attenzione: la norma non specifica quali siano gli strumenti attraverso cui l’imprenditore possa dimostrare di rientrare in tali parametri. Nella prassi applicativa, si è spesso data per scontata la necessità di produrre i bilanci depositati, ma – come chiarisce ora la Cassazione – questa interpretazione risulta eccessivamente formalistica.

L’onere della prova e la libertà dei mezzi: un bilanciamento necessario

Il ragionamento dei giudici di legittimità prende le mosse dal principio generale secondo cui, in applicazione dell’art. 2435 c.c., ragioni di tutela – anche a fini probatori – possono giustificare la valutazione di documentazione diversa dal bilancio per valutare la fallibilità o meno dell’imprenditore.

In sostanza, il debitore può tranquillamente avvalersi delle scritture contabili interne e di qualunque altro documento (formato da terzi o dalla parte stessa) che possa fornire una rappresentazione storica attendibile dei fatti e dei dati economico-patrimoniali.

Questo approccio risulta particolarmente rilevante in tutti quei casi – e non sono pochi! – in cui l’imprenditore non abbia provveduto regolarmente al deposito dei bilanci negli ultimi esercizi. Una criticità ricorrente soprattutto nelle fasi di pre-crisi, quando le aziende tendono a trascurare gli adempimenti formali.

L’omesso deposito dei bilanci – chiarisce la Corte – resta certamente un’omissione rilevante ai fini dell’obbligo di consegna al curatore ex art. 86 l. fall., ma non può di per sé impedire al debitore di provare in altro modo il mancato superamento delle soglie.

Aspetti operativi e ricadute pratiche: cosa cambia per professionisti e imprese

Quali sono, dunque, le conseguenze pratiche di questa pronuncia? I risvolti operativi appaiono significativi.

Intanto, va evidenziato che il giudice del merito dovrà d’ora in poi valutare qualsiasi documentazione prodotta dal debitore – non solo i bilanci – purché idonea a rappresentare la situazione patrimoniale ed economica dell’impresa. Si pensi, ad esempio, a perizie contabili, situazioni patrimoniali infrannuali, dichiarazioni fiscali, registri IVA, scritture contabili interne, contratti commerciali significativi…

Nella difesa dell’imprenditore che voglia dimostrare la propria non fallibilità, sarà quindi possibile – anzi, consigliabile – predisporre un quadro probatorio il più completo possibile, senza limitarsi alla mera produzione dei bilanci depositati (sempre che ve ne siano).

Ma c’è di più. La decisione apre la strada a strategie processuali più articolate. Ad esempio – cosa che nella pratica professionale si osserva di frequente – sarà più agevole contestare la sussistenza dei requisiti dimensionali anche per quelle imprese che, pur avendo formalmente depositato bilanci che superano le soglie, possano dimostrare con altri elementi (come la documentazione bancaria o fiscale) che i dati reali sono in verità inferiori.

Il nuovo equilibrio processuale: una questione di sostanza

La sentenza della Suprema Corte ha il merito di riequilibrare i rapporti processuali nel giudizio fallimentare. Del resto – vale la pena sottolinearlo – l’omessa redazione o il mancato deposito dei bilanci costituiscono già di per sé comportamenti sanzionati dall’ordinamento. Utilizzare tale omissione anche per impedire al debitore di difendersi nel procedimento fallimentare risulterebbe una sorta di “doppia sanzione” non prevista dalla legge.

Come ha osservato la Cassazione, l’omesso deposito dei bilanci in sede prefallimentare rimane “del tutto estraneo alla logica della norma in discorso”, che ha una funzione sanzionatoria dell’imprenditore inadempiente ma non può spingersi fino a impedirgli di difendersi con altri mezzi.

Il valore probatorio, insomma, non può essere negato a prescindere dal fatto che ciò avvenga in maniera diversa dalla produzione dei bilanci – che resta comunque la via maestra, sia chiaro.

Nella fattispecie concreta, i giudici hanno quindi cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’Appello di Milano per una nuova valutazione che tenga conto della documentazione alternativa presentata dal debitore.

Quali documenti alternativi? Spunti dalla giurisprudenza

Ma in concreto, quali documenti possono sostituire i bilanci depositati? La casistica giurisprudenziale offre alcuni esempi interessanti.

Innanzitutto, le scritture contabili interne dell’impresa (libro giornale, registri IVA, libro inventari) possono certamente costituire validi elementi probatori – sempre che siano regolarmente tenute, naturalmente.

Anche le dichiarazioni fiscali presentate all’Agenzia delle Entrate (modelli Redditi SC, Irap, ecc.) possono fornire utili indicazioni sui ricavi e sul valore della produzione.

In alcuni casi, i tribunali hanno ritenuto ammissibili anche perizie contabili redatte da professionisti incaricati, purché basate su documentazione attendibile e verificabile.

Non vanno poi sottovalutati gli estratti conto bancari, che possono fornire evidenza dei flussi finanziari dell’impresa, né i principali contratti commerciali, che possono testimoniare il volume d’affari effettivo.

Una riflessione critica: verso un fallimento “sostanziale”?

La pronuncia della Cassazione n. 10576/2025 si inserisce in un percorso giurisprudenziale che, negli ultimi anni, sembra orientato a valorizzare sempre più gli aspetti sostanziali rispetto a quelli meramente formali della disciplina fallimentare.

Un’evoluzione, questa, che appare in linea con lo spirito della riforma organica delle procedure concorsuali avviata nel 2005-2006 e proseguita con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – che com’è noto fatica ancora a trovare piena applicazione.

L’impressione è che i giudici di legittimità stiano cercando di bilanciare due esigenze contrapposte: da un lato, la necessità di sanzionare comportamenti omissivi degli imprenditori (come il mancato deposito dei bilanci); dall’altro, l’esigenza di garantire un’effettiva tutela del diritto di difesa nel procedimento fallimentare.

In questa prospettiva, la valorizzazione degli “strumenti probatori alternativi” rappresenta un punto di equilibrio ragionevole. Si evita infatti che l’imprenditore venga dichiarato fallito solo per non aver depositato i bilanci – circostanza che potrebbe verificarsi anche per semplice negligenza o per difficoltà contingenti – pur senza legittimare comportamenti elusivi.

D’altra parte, resta fermo l’onere del debitore di dimostrare l’insussistenza dei requisiti dimensionali… E questo non è un aspetto di poco conto! Nel dubbio – è bene ricordarlo – l’imprenditore sarà comunque considerato fallibile.

Si tratta insomma di un’interpretazione che, senza stravolgere il sistema, consente una maggiore elasticità applicativa.

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