Il dibattito sulla riforma del regime IVA applicabile agli enti del terzo settore continua a catalizzare l’attenzione degli operatori e dei legislatori. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha anticipato, durante un convegno organizzato presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che l’esecutivo starebbe valutando una proroga di portata straordinaria – si parla di un orizzonte temporale che potrebbe spingersi fino a dieci anni – per consentire al comparto di adeguarsi gradualmente alle nuove disposizioni in materia di imposta sul valore aggiunto.
La questione si inserisce in un contesto normativo già di per sé complesso, dove il passaggio dal regime di esclusione a quello di esenzione IVA ha subito rinvii successivi. L’ultimo decreto Milleproroghe, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2024, ha posticipato al 10 gennaio 2026 l’entrata in vigore delle modifiche previste dall’articolo 5, comma 15-quater del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- La riforma IVA per gli enti del terzo settore potrebbe essere prorogata fino a 10 anni, dando più tempo per adeguarsi.
- Il passaggio da esclusione a esenzione IVA comporta nuovi obblighi: apertura partita IVA, tenuta scritture contabili, dichiarazioni.
- Restano regimi agevolati: legge 398/1991, regime forfettario e franchigia sotto i 65.000 €.
- La proroga mira a risolvere criticità interpretative e operative, specie per associazioni sportive e realtà minori.
- Serve coordinamento tra normativa IVA, imposte sui redditi e Codice Terzo Settore, anche in confronto con UE.
- Gli enti e i professionisti dovranno investire in formazione, digitalizzazione e consulenza per la transizione.
Le ragioni di un rinvio prolungato
La necessità di un periodo transitorio esteso nasce da molteplici fattori che, nella prassi quotidiana degli enti, si traducono in criticità operative difficilmente risolvibili nel breve termine. Il viceministro Leo non ha nascosto la portata delle problematiche quando ha affermato che “dal primo gennaio 2026 si deve passare dall’esclusione all’esenzione IVA” e che “questo crea dei problemi, ne siamo consapevoli”.
Gli enti associativi, le organizzazioni di volontariato, le associazioni sportive dilettantistiche e gli altri soggetti che operano nel terzo settore si troverebbero infatti a dover gestire una serie di adempimenti amministrativi e fiscali che, per molte realtà di piccole dimensioni, rappresenterebbero un onere difficilmente sostenibile. Si pensi all’apertura della partita IVA per soggetti che fino ad oggi hanno operato in regime di esclusione totale, oppure all’acquisizione e gestione di registratori di cassa telematici, strumenti che richiedono competenze specifiche e investimenti non trascurabili.
La transizione dal regime di esclusione a quello di esenzione comporta differenze sostanziali che vanno oltre il mero aspetto semantico. Nel regime di esclusione, le operazioni sono completamente al di fuori del campo di applicazione dell’IVA: gli enti non hanno partita IVA, non emettono fatture, non registrano le operazioni, non presentano dichiarazioni IVA. Il regime di esenzione, invece, pur liberando dall’obbligo di applicare l’imposta sulle cessioni e prestazioni, impone comunque una serie di obblighi formali e sostanziali: apertura della partita IVA, tenuta delle scritture contabili IVA, presentazione delle dichiarazioni annuali, liquidazioni periodiche anche se con saldo zero.
La procedura di infrazione europea e il dialogo con Bruxelles
È opportuno ricordare che l’intera riforma trae origine dalla procedura di infrazione n. 2008/2010 avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia. Bruxelles aveva contestato al nostro Paese il mancato pieno recepimento della direttiva 2006/112/CE in materia di IVA, rilevando come il regime di esclusione previsto dall’articolo 4, comma 4, del D.P.R. 633/1972 fosse incompatibile con la normativa comunitaria.
L’IVA è un tributo armonizzato a livello europeo, e questo significa che le modifiche introdotte dal legislatore nazionale devono necessariamente essere coordinate con le istituzioni dell’Unione. Il governo italiano ha avviato un dialogo con Bruxelles per definire un sistema che, pur rispettando i vincoli europei, tenga conto delle specificità del tessuto associativo italiano. Come evidenziato dallo stesso viceministro Leo, l’obiettivo è “fissare dei paletti entro i quali si rimane nell’ambito dell’esclusione”, individuando soglie dimensionali o altri criteri oggettivi che permettano alle realtà più piccole di continuare a beneficiare di un regime semplificato.
Il nostro Paese vanta infatti un sistema normativo evoluto nel settore non profit, che ha pochi equivalenti nel panorama continentale. Il Codice del Terzo Settore, contenuto nel decreto legislativo n. 117/2017, rappresenta un unicum che disciplina in modo organico l’intero comparto. Questa peculiarità rende necessario un approccio calibrato, che non può prescindere da un confronto approfondito con le autorità europee.
Gli strumenti normativi attualmente disponibili
Nelle more della piena operatività della riforma, gli enti del terzo settore possono avvalersi di diversi regimi fiscali che consentono di alleggerire gli adempimenti IVA. La legge n. 398/1991 prevede un regime speciale di tipo forfettario che, ai sensi dell’articolo 1, consente agli enti associativi di determinare le imposte su base forfettaria. Tale regime si applica ai proventi derivanti dalle attività commerciali e permette di evitare la tenuta di una contabilità ordinaria complessa.
Per le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale con volume d’affari non superiore a 65.000 euro annui, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiarito, in data 5 dicembre 2023 (seduta 209), che è possibile avvalersi del regime di franchigia previsto dalla legge n. 190/2014. Questo regime, inserito nell’ordinamento italiano in attuazione della direttiva 2006/112/CE, consente agli enti di non applicare l’IVA sulle operazioni effettuate, purché non si superi la predetta soglia di ricavi.
Un’ulteriore opzione è rappresentata dalla dispensa dagli adempimenti IVA prevista dall’articolo 36-bis del D.P.R. 633/1972, introdotto dall’articolo 5-bis del decreto-legge 75/2023, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112. Tale disposizione consente agli enti che effettuano esclusivamente operazioni esenti di non emettere fatture per le prestazioni rese, salvo diversa richiesta espressa del cliente. Occorre tuttavia evidenziare come questa opzione non esoneri completamente dagli obblighi IVA: permane infatti l’obbligo di registrare gli acquisti e di rispettare gli adempimenti legati alle liquidazioni periodiche e alla dichiarazione annuale.
Le criticità interpretative e gli aspetti ancora da chiarire
La stratificazione normativa degli ultimi anni ha generato una serie di dubbi interpretativi che gli operatori del settore attendono vengano risolti. Uno dei nodi più rilevanti riguarda l’interazione tra il regime speciale ex legge 398/1991 e la nuova disciplina IVA. In particolare, ci si chiede se i proventi che transiteranno dal regime di esclusione a quello di esenzione debbano essere considerati di natura commerciale ai fini delle imposte sui redditi, con conseguente applicazione dell’IRES e dell’IRAP nella misura forfettaria del 3%.
La questione non è di poco conto. L’articolo 148, comma 8, del TUIR prevede che non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti dei soci, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali. Secondo un’interpretazione letterale di tale disposizione, i corrispettivi incassati da soci e tesserati dovrebbero rimanere de-commercializzati anche dopo il passaggio al regime di esenzione IVA. Tuttavia, l’inserimento di tali proventi nel regime forfettario previsto dalla legge 398/1991, il quale si applica espressamente ai “proventi derivanti dalle attività commerciali”, potrebbe far sorgere il dubbio che tali operazioni assumano natura commerciale.
Un chiarimento ufficiale da parte dell’Agenzia delle Entrate appare quindi indispensabile. La proroga al 2026, e l’eventuale ulteriore slittamento nell’arco di un decennio, dovrebbe offrire il tempo necessario per risolvere queste incertezze attraverso circolari interpretative o risoluzioni che forniscano agli operatori coordinate certe su cui orientare le proprie scelte gestionali.
Le prospettive per le associazioni sportive dilettantistiche
Un settore particolarmente interessato dalla riforma è quello dello sport dilettantistico. Le associazioni sportive dilettantistiche e le società sportive dilettantistiche hanno beneficiato fino ad oggi di un regime fiscale estremamente favorevole, che ha permesso a migliaia di realtà locali di operare con una pressione burocratica contenuta. Il passaggio al regime di esenzione IVA rischiava di compromettere questo equilibrio, imponendo costi di gestione insostenibili per molte piccole società.
La proroga concessa dal decreto Milleproroghe rappresenta un importante sospiro di sollievo per il comparto, ma le perplessità rimangono. L’applicabilità del regime 398/1991 alle ASD e SSD appare certamente vantaggiosa in termini di semplificazione degli adempimenti, ma come già evidenziato sussistono dubbi circa il trattamento fiscale dei proventi che transiteranno dal regime di esclusione a quello di esenzione.
Inoltre, va considerato che molte associazioni sportive dilettantistiche operano senza partita IVA, non essendo attualmente soggette ad alcun obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi se non percepiscono proventi commerciali. Con il nuovo regime, anche queste realtà potrebbero trovarsi nella necessità di dotarsi di partita IVA e di avviare una gestione contabile strutturata, con tutto ciò che ne consegue in termini di costi e competenze richieste.
La necessità di una riforma organica e coordinata
La vicenda della riforma IVA per il terzo settore evidenzia come sia complesso intervenire su un settore tanto articolato e variegato. Gli enti del terzo settore presentano caratteristiche estremamente diverse tra loro: dalle grandi organizzazioni con strutture amministrative consolidate alle piccole associazioni di quartiere che operano con il solo supporto di volontari; dalle fondazioni con patrimoni rilevanti alle organizzazioni di volontariato che si sostengono esclusivamente con donazioni.
Applicare un regime fiscale uniforme a questa molteplicità di realtà rischia di produrre effetti distorsivi. Ecco perché l’idea di definire “paletti” dimensionali, come anticipato dal viceministro Leo, appare ragionevole. Si potrebbe immaginare un sistema a scalare, dove le realtà più piccole – magari individuate sulla base del volume di ricavi o del numero di soci – continuano a beneficiare del regime di esclusione, mentre gli enti di maggiori dimensioni transitano gradualmente verso il regime di esenzione o verso regimi speciali semplificati.
Un simile approccio richiederebbe tuttavia una riforma organica e coordinata, che tenga conto non solo della disciplina IVA ma anche di quella delle imposte sui redditi, attualmente ancora legata al Testo Unico delle Imposte sui Redditi in attesa della piena operatività del Titolo X del Codice del Terzo Settore. Quest’ultimo, contenuto nel decreto legislativo n. 117/2017, prevede un sistema fiscale specifico per gli enti del terzo settore iscritti nel RUNTS (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore), ma la sua applicazione è subordinata all’autorizzazione della Commissione Europea, ancora in corso di ottenimento.
Gli impatti operativi per gli enti e i professionisti del settore
Dal punto di vista operativo, la proroga offre agli enti un periodo di respiro per adeguare le proprie strutture organizzative e contabili. Le piccole associazioni potranno valutare con maggiore attenzione le diverse opzioni fiscali disponibili, eventualmente ricorrendo a consulenze specializzate per individuare la soluzione più adatta alle proprie esigenze.
I commercialisti e i consulenti fiscali che assistono gli enti del terzo settore avranno il tempo necessario per formare il personale sulle nuove disposizioni e per predisporre strumenti operativi che facilitino la transizione. La complessità della normativa richiede infatti competenze specifiche che non sempre sono presenti all’interno degli enti, soprattutto quelli di minori dimensioni.
Va considerato inoltre che molti enti dovranno digitalizzare i propri processi amministrativi e contabili. L’obbligo di emissione della fattura elettronica, l’utilizzo del registratore di cassa telematico, la trasmissione telematica delle liquidazioni periodiche e delle dichiarazioni annuali richiedono infatti l’adozione di software gestionali e la connettività necessaria per interfacciarsi con i sistemi dell’Agenzia delle Entrate. Per le realtà che operano in aree geografiche con infrastrutture digitali carenti, o per quelle composte prevalentemente da volontari anziani con minore familiarità con gli strumenti informatici, questo rappresenta un ostacolo tutt’altro che secondario.
Le possibili evoluzioni legislative
Guardando alle possibili evoluzioni future, appare probabile che il legislatore interverrà con provvedimenti di coordinamento volti a integrare la disciplina IVA con quella delle imposte sui redditi e con il Codice del Terzo Settore. Un’ipotesi suggestiva è quella di un intervento organico nell’ambito della delega fiscale, che possa razionalizzare l’intero sistema tributario applicabile agli enti non commerciali.
Il termine “proroga decennale” evocato nel dibattito pubblico lascia intendere che l’esecutivo sia consapevole della complessità della materia e della necessità di un approccio graduale. Dieci anni rappresentano un orizzonte temporale che consente di accompagnare gli enti nella transizione, di monitorare gli effetti delle nuove disposizioni, di apportare correzioni in corso d’opera e, non da ultimo, di completare il dialogo con le istituzioni europee per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie.
Secondo quanto emerso dal dibattito parlamentare, l’obiettivo del governo è quello di giungere a un sistema che, pur rispettando i vincoli comunitari, preservi le specificità del modello italiano di terzo settore. Questo potrebbe tradursi nell’individuazione di soglie di ricavi o altri parametri oggettivi al di sotto dei quali gli enti continuano a operare in regime di esclusione, riservando il regime di esenzione solo alle realtà che superano determinate dimensioni.


