La recente pronuncia del Supremo Collegio segna un punto fermo nella distinzione tra pratiche elusive e condotte penalmente rilevanti nel trasferimento artificioso dei proventi. Con la sentenza numero 37939, depositata in questi giorni, i giudici di legittimità hanno tracciato una linea di demarcazione piuttosto netta. Attribuire artificiosamente i proventi a un soggetto che non ne rappresenta il reale titolare – una pratica che nella prassi si verifica con una certa frequenza – non può trovare collocazione nell’ambito dell’abuso fiscale disciplinato dall’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente. La condotta potrebbe invece configurare una fattispecie ben più grave, quella prevista dall’articolo 3 del decreto legislativo numero 74 del 2000, relativo alla dichiarazione fraudolenta realizzata attraverso altri espedienti.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- La Cassazione (sent. n. 37939/2025) ha chiarito che l’imputazione artificiosa di redditi a un soggetto diverso dal reale titolare non rientra nell’abuso fiscale ex art. 10-bis Statuto contribuenti, ma può configurare la più grave ipotesi di dichiarazione fraudolenta (art. 3 D.Lgs. 74/2000).
- L’abuso fiscale ha rilievo solo residuale: opera se non vi sono specifiche norme tributarie violate; mentre l’imputazione fittizia è già regolata dall’art. 37 comma 3 DPR 600/1973 che consente all’Amministrazione di contestare direttamente i redditi attribuiti tramite interposizione.
- Le conseguenze sanzionatorie cambiano: l’abuso genera soltanto sanzioni amministrative, l’imputazione fittizia può comportare anche rilievo penale e rischi di dichiarazione fraudolenta.
- I professionisti devono strutturare le operazioni con attenzione: la pianificazione aggressiva che “colora” i redditi a soggetti interposti può sconfinare nella frode, senza le tutele procedurali e penali proprie dell’abuso del diritto.
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La disciplina dell’abuso fiscale e i suoi confini applicativi
Occorre richiamare brevemente cosa si intende per abuso nel linguaggio tributario. La legge 212 del 2000, all’articolo 10-bis introdotto successivamente, identifica come abusiva quella condotta che si sostanzia in uno o più atti privi di concretezza economica. Questi atti – pur formalmente rispettosi delle disposizioni fiscali – perseguono sostanzialmente benefici tributari non dovuti. L’amministrazione finanziaria ha facoltà di disconoscere tali vantaggi, rideterminando i tributi secondo le norme e i principi che il contribuente ha cercato di aggirare, tenendo conto comunque di quanto già versato.
Si considerano prive di sostanza economica quelle operazioni che – singolarmente o nel loro insieme – risultano inidonee a generare effetti rilevanti al di fuori dei vantaggi fiscali perseguiti. Esistono alcuni elementi sintomatici: la discrasia tra qualificazione giuridica delle singole operazioni e il fondamento complessivo del loro insieme; l’impiego di strumenti giuridici in modalità non conformi alle ordinarie dinamiche di mercato.
I benefici fiscali si qualificano come indebiti quando vengono realizzati – anche in differita temporale – in contrasto con le finalità delle norme tributarie o con i principi generali dell’ordinamento fiscale. Ed è proprio qui che si colloca un aspetto rilevante: le operazioni qualificate come abusive non generano conseguenze sul piano penale tributario. Restano ferme soltanto le sanzioni di natura amministrativa.
Il nodo dell’imputazione fittizia secondo la Cassazione
Nel caso esaminato dalla Suprema Corte emerge però un problema. Non si può invocare la previsione contenuta nel comma 13 dell’articolo 10-bis. Il motivo? Lo stesso articolo, ma al comma 12, stabilisce un principio dirimente. L’abuso può essere configurato in fase di accertamento solo qualora i vantaggi fiscali non possano essere contestati richiamando la violazione di specifiche disposizioni tributarie.
E qui entra in gioco l’articolo 37, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 600 del 1973. Questa norma – ancora pienamente operativa – dispone che in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio vengono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono formalmente titolari altri soggetti, quando risulti dimostrato – anche mediante presunzioni gravi, precise e concordanti – che egli ne sia l’effettivo possessore tramite interposta persona.
Quindi, osservano i giudici di piazza Cavour, quando si verifica un’imputazione artificiosa dei proventi a un soggetto differente dal reale possessore, ci si trova di fronte a una vicenda che ricade nell’ambito di una disposizione tributaria ben precisa. L’articolo 37 comma 3 del DPR 600 del 1973 impone di disconoscere i vantaggi fiscali ottenuti con questa modalità operativa. E conseguentemente – alla luce di quanto previsto dall’articolo 10-bis comma 12 della legge 212 del 2000 – esclude che si possa configurare un abuso del diritto.
Le conseguenze sul piano della rilevanza penale tributaria
Ma se non si può ritenere configurabile un abuso fiscale nel caso di imputazione fittizia dei redditi, viene meno anche l’applicabilità della disciplina che ne dispone l’irrilevanza sul piano penale. Il ragionamento appare lineare, sebbene le sue implicazioni pratiche siano tutt’altro che secondarie.
Con specifico riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 74 del 2000, emerge un ulteriore limite all’applicazione della disciplina di esclusione della punibilità. L’articolo 1 comma 1 lettera g-bis del medesimo decreto – introdotto dal decreto legislativo 158 del 2015 – fornisce una definizione importante. Per operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente si intendono quelle operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 212 del 2000, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte, oppure le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti.
Rispetto a questo dato normativo occorre considerare che la congiunzione alternativa “ovvero” consente di includere specificamente nell’ambito delle operazioni simulate anche le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti. Il sintagma “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” viene riportato testualmente nell’articolo 3 del decreto legislativo 74 del 2000 per descrivere una delle possibili condotte suscettibili di integrare la fattispecie penale.
Il rapporto tra abuso del diritto e condotte fraudolente
La decisione in commento richiama un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità. L’istituto dell’abuso fiscale di cui all’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente – con la correlata esclusione della rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili – presenta un’applicazione soltanto residuale. Questa residualità opera rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, tutti disciplinati dal decreto legislativo 74 del 2000.
Di conseguenza, l’abuso fiscale non viene mai in rilievo quando i fatti contestati integrano fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi. In questo senso si erano già pronunciate la sentenza numero 38016 del 2017 e la sentenza numero 40272 del 2015.
La pronuncia offre dunque un chiarimento significativo per operatori e professionisti. Quando un contribuente attribuisce artificiosamente redditi a un soggetto interposto, non può invocare la disciplina dell’abuso del diritto per escludere conseguenze penali. La condotta può infatti configurare la più grave fattispecie della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano sanzionatorio, sia amministrativo che penale.
Implicazioni pratiche per contribuenti e consulenti fiscali
Nella prassi operativa questa distinzione assume un rilievo considerevole. I professionisti chiamati a strutturare operazioni fiscalmente efficienti devono prestare particolare attenzione a evitare che la pianificazione tributaria sconfini in condotte penalmente rilevanti. L’utilizzo di soggetti interposti per l’attribuzione dei redditi rappresenta una zona grigia in cui il confine tra ottimizzazione fiscale lecita e condotta fraudolenta risulta particolarmente sottile.
La sentenza numero 37939 del 2025 ribadisce che non tutte le operazioni fiscalmente aggressive possono trovare protezione nella disciplina dell’abuso del diritto. Quando esiste una specifica disposizione tributaria che regola la fattispecie – come l’articolo 37 comma 3 del DPR 600 del 1973 – questa prevale sulla clausola generale antiabuso. E soprattutto, quando la condotta integra gli estremi di una fattispecie penale tributaria, non opera la clausola di salvaguardia che esclude la punibilità.
Un caso esemplificativo può chiarire la portata della decisione. Si consideri un imprenditore che imputasse formalmente i proventi della propria attività a familiari privi di effettivo coinvolgimento operativo, al solo scopo di beneficiare di aliquote progressive più favorevoli. Secondo la Cassazione, tale condotta non potrebbe essere qualificata come mero abuso fiscale – con le conseguenti tutele procedurali e l’esclusione della rilevanza penale – ma dovrebbe essere valutata alla luce dell’articolo 3 del decreto 74 del 2000, con possibile configurazione della dichiarazione fraudolenta.
I criteri distintivi tra le diverse fattispecie
Emerge dalla pronuncia la necessità di operare distinzioni precise. L’abuso del diritto presuppone operazioni prive di sostanza economica ma formalmente lecite, poste in essere per ottenere vantaggi fiscali indebiti. L’interposizione fittizia di persone, disciplinata dall’articolo 37 del DPR 600 del 1973, rappresenta invece una specifica modalità di occultamento del reale titolare dei redditi.
Quando l’amministrazione finanziaria contesta un’imputazione fittizia, può avvalersi degli strumenti probatori previsti dalla norma speciale, senza necessità di attivare il contraddittorio preventivo richiesto per l’abuso fiscale. Sul piano sanzionatorio, poi, le conseguenze sono ben diverse: mentre l’abuso comporta esclusivamente sanzioni amministrative, l’interposizione fittizia può configurare – ricorrendone i presupposti – una fattispecie penalmente rilevante.
La distinzione non è meramente teorica ma produce effetti concreti anche sul piano processuale. Il contribuente che si veda contestare un’imputazione fittizia di redditi non potrà invocare le garanzie procedurali previste per l’abuso fiscale, né potrà beneficiare dell’esclusione della rilevanza penale. Dovrà invece confrontarsi con un accertamento basato sull’articolo 37 del DPR 600 del 1973, con possibili riflessi anche sul piano penale tributario.
La sentenza si inserisce in un quadro giurisprudenziale ormai consolidato che tende a circoscrivere l’ambito applicativo dell’abuso del diritto, riconoscendogli natura residuale rispetto alle specifiche fattispecie di evasione e frode fiscale. Questo orientamento risponde all’esigenza di evitare che la clausola generale antiabuso diventi uno strumento per eludere le conseguenze – anche penali – di condotte fraudolente.



