Si fa strada nella manovra 2026 l’ipotesi di portare a 10 euro la soglia di detassazione per i ticket elettronici. Una modifica che coinvolgerebbe 3,5 milioni di lavoratori e che, secondo le stime, potrebbe generare entrate nette per lo Stato comprese tra 95 e 110 milioni di euro. Il Viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha confermato che la misura è al vaglio dei tecnici del Ministero.
La proposta che ridisegna il welfare aziendale
Nella prassi quotidiana del rapporto di lavoro, i buoni pasto rappresentano uno degli strumenti di welfare più diffusi. Si tratta di titoli di pagamento che il dipendente può utilizzare per acquistare pasti o prodotti alimentari durante la pausa lavorativa. La loro disciplina trova fondamento nell’articolo 51, secondo comma, lettera c) del Testo Unico delle Imposte sui Redditi.
Attualmente il quadro normativo prevede soglie diverse: 4 euro per i buoni cartacei, 8 euro per quelli elettronici. Al di sotto di questi limiti, l’importo non concorre alla formazione del reddito da lavoro dipendente. Niente tasse, niente contributi.
Ma il costo reale di un pasto fuori casa è cambiato. L’inflazione degli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto dei ticket. Da qui nasce l’ipotesi di un intervento sulla soglia di esenzione fiscale buoni pasto, portandola a 10 euro per i formati digitali.
Il quadro normativo e i meccanismi di funzionamento
Secondo quanto previsto dalla normativa vigente (introdotta con la Legge di Bilancio 2020), i buoni pasto sono inquadrati come compensi “in denaro” e non come benefit in natura. La distinzione è importante, perché comporta che l’eccedenza oltre la soglia di esenzione non può beneficiare della franchigia generale di 258,23 euro annui prevista per i fringe benefit.
In sostanza: se un’azienda decide di erogare buoni pasto da 9 euro (nella configurazione attuale), solo 1 euro per ogni ticket sarebbe soggetto a tassazione ordinaria. Ma tale euro verrebbe tassato integralmente, senza possibilità di cumulo con altre agevolazioni.
Per il datore di lavoro, invece, il costo dei buoni pasto è integralmente deducibile. A differenza delle spese di vitto e alloggio (che scontano il limite del 75%), questi esborsi possono essere portati in deduzione per l’intero ammontare ai fini IRPEF, IRES e IRAP.
Quanto vale l’aumento per i lavoratori
Si consideri un dipendente che riceve buoni pasto per 220 giornate lavorative all’anno. Con la soglia attuale di 8 euro, il valore annuo esente ammonta a 1.760 euro. Portando il limite a 10 euro, si arriverebbe a 2.200 euro. La differenza? 440 euro netti in più, subito spendibili.
Per le famiglie del ceto medio (redditi compresi tra 25.000 e 50.000 euro), l’incremento equivale praticamente a una mensilità aggiuntiva. Non poco, considerando che già oggi il ticket rappresenta un sostegno significativo al reddito disponibile.
L’operazione coinvolgerebbe circa 3,5 milioni di persone: 2,8 milioni nel settore privato, 700.000 nella pubblica amministrazione. Oltre a 250.000 enti acquirenti del servizio e 170.000 esercizi convenzionati tra bar, ristoranti e supermercati.
L’impatto sulle casse dello Stato: i numeri dello studio Ambrosetti
La ricerca condotta da TEHA – The European House Ambrosetti in collaborazione con Edenred ha quantificato gli effetti economici dell’intervento. I dati sono interessanti, per certi versi controintuitivi.
La maggiore spesa per l’Erario si attesterebbe tra 75 e 90 milioni di euro. Ma l’aumento dei consumi (stimato tra 1,7 e 1,9 miliardi) genererebbe maggiori entrate IVA comprese tra 170 e 200 milioni. Saldo netto: positivo, tra 95 e 110 milioni a favore dello Stato.
Lo studio elabora anche uno scenario progressivo: aumento graduale della soglia nel triennio 2026-2028, con passaggio a 9 euro nel 2026, 10 euro nel 2027, 11 euro nel 2028. In tale ipotesi, il beneficio netto si attesterebbe tra 156 e 176 milioni, spalmati sui tre anni.
Si tratta di proiezioni, naturalmente. Ma che evidenziano come l’apparente “costo” della misura possa tradursi in un’operazione neutra, se non vantaggiosa, per la finanza pubblica.
Il settore dei ticket: un comparto che vale lo 0,75% del PIL
Occorre inquadrare la proposta in un contesto più ampio. Il settore dei buoni pasto sostiene circa 220.000 posti di lavoro, tra occupazione diretta e indotto. Secondo i dati SDA Bocconi, genera valore per lo 0,75% del PIL nazionale.
Nel 2023 i consumi tramite buoni pasto hanno contribuito con 419 milioni di euro di IVA. Un flusso non trascurabile per l’Erario. L’Osservatorio Welfare di Edenred evidenzia che nel 2024 le imprese italiane hanno erogato in media circa 1.000 euro a dipendente sotto forma di credito welfare, con un incremento del 10% rispetto ai 910 euro dell’anno precedente.
Come spesso accade nelle dinamiche di welfare aziendale, l’effetto moltiplicatore sul sistema economico supera l’apparente portata della singola misura. Ogni euro di buono pasto genera consumi, che a loro volta alimentano il giro d’affari di esercizi commerciali, con ricadute occupazionali e fiscali.
La stretta sulle commissioni: il tetto del 5% operativo da settembre
Parallelamente all’ipotesi di innalzamento della soglia di esenzione, dal 1° settembre 2025 è scattata un’altra novità. La legge annuale per la concorrenza (n. 193/2024) ha introdotto un limite massimo del 5% alle commissioni a carico degli esercenti che accettano i buoni pasto.
Prima di questo intervento, nella prassi si registravano commissioni che potevano raggiungere anche il 20%. Un onere significativo per bar e ristoranti, che in molti casi scoraggiava l’adesione al sistema.
Il nuovo tetto si applica sia ai buoni cartacei che a quelli elettronici, uniformando il mercato. La ratio della norma è duplice: da un lato, tutelare gli esercenti da commissioni eccessive; dall’altro, favorire l’ampliamento della rete di accettazione, a beneficio finale dei lavoratori che utilizzano i ticket.
Iter legislativo e prospettive di approvazione
La proposta di innalzamento della soglia era già stata presentata dalla senatrice Paola Mancini (Fratelli d’Italia), componente della Commissione Lavoro. Il disegno di legge aveva superato indenne l’esame parlamentare ed è ora al vaglio del Ministero dell’Economia.
Maurizio Leo, Viceministro del MEF, ha confermato nelle scorse settimane che l’ipotesi è concreta. Se troverà spazio nella Legge di Bilancio 2026, gli effetti potrebbero manifestarsi già dal prossimo anno.
Va precisato un aspetto: la norma non imporrebbe automaticamente l’erogazione di buoni da 10 euro. Si limiterebbe ad alzare il tetto di esenzione. Sarà poi la contrattazione di secondo livello (aziendale o territoriale) a definire, caso per caso, se e in che misura aumentare il valore facciale dei ticket.
Per le aziende, però, la convenienza sarebbe evidente. Erogare buoni da 10 euro anziché da 8 non comporterebbe maggiori oneri fiscali o contributivi. Per i dipendenti, si tradurrebbe in un incremento netto del potere d’acquisto.
Criticità applicative e disparità territoriali
È opportuno notare che l’aumento della soglia non risolve tutte le questioni. Persiste, ad esempio, il tema delle disparità territoriali. In alcune aree metropolitane (Milano, Roma) il costo di un pasto completo può superare ampiamente i 10 euro. In altre zone, il valore del buono garantisce un potere d’acquisto superiore.
Si tratta di una variabile che la normativa fiscale non può facilmente intercettare. L’esenzione è fissata in termini assoluti, senza differenziazioni geografiche. La soluzione, anche in questo caso, passa dalla contrattazione collettiva: accordi aziendali o territoriali possono prevedere integrazioni o adeguamenti in funzione del contesto locale.
Un altro aspetto talvolta trascurato riguarda i lavoratori a tempo parziale o con contratti atipici. La giurisprudenza ha talvolta interpretato in modo restrittivo il diritto ai buoni pasto per queste categorie. Occorrerebbe una maggiore chiarezza normativa, che la manovra in discussione potrebbe (ma non è detto) affrontare.
Perché la misura può funzionare
L’esperienza del 2015 offre un precedente interessante. In quell’anno la soglia di esenzione per i buoni elettronici fu portata da 5 a 7 euro. Il costo stimato per lo Stato era di 58 milioni. L’extra gettito IVA derivante dai maggiori consumi fu di 248 milioni. Beneficio netto: 189 milioni.
Il meccanismo è chiaro: l’agevolazione fiscale stimola l’erogazione di ticket di valore più elevato. I lavoratori, disponendo di maggiori risorse, aumentano i consumi. L’incremento della spesa genera IVA. Il cerchio si chiude con un saldo positivo per l’Erario.
Fabrizio Ruggiero, amministratore delegato di Edenred Italia, ha sottolineato come il caro vita sia la prima preoccupazione per il 60% dei lavoratori, con punte del 70% nella Generazione Z. In questo contesto, il buono pasto diventa uno strumento essenziale di sostegno al reddito.
Riepilogo operativo finale
Ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera c) del TUIR, i buoni pasto non concorrono alla formazione del reddito entro i limiti di 4 euro (cartacei) e 8 euro (elettronici). La proposta di legge al vaglio del Governo prevede l’innalzamento della soglia per i ticket elettronici a 10 euro, con possibile inserimento nella Legge di Bilancio 2026.
La misura coinvolgerebbe 3,5 milioni di lavoratori e genererebbe un beneficio netto per lo Stato tra 95 e 110 milioni di euro, grazie al maggior gettito IVA derivante dall’incremento dei consumi. Per i dipendenti, l’aumento si tradurrebbe in circa 440 euro netti annui aggiuntivi.
Dal 1° settembre 2025 è in vigore il tetto del 5% alle commissioni a carico degli esercenti, introdotto dalla legge sulla concorrenza n. 193/2024. L’intervento punta a favorire l’ampliamento della rete di accettazione dei buoni pasto.
L’iter legislativo è in corso. Se approvata, la norma non imporrebbe automaticamente buoni da 10 euro, ma renderebbe fiscalmente conveniente l’aumento del valore facciale tramite contrattazione aziendale o territoriale.