Il percorso della manovra finanziaria per il 2026 ha subito una virata sostanziale sul fronte della tassazione degli utili societari. L’esecutivo ha depositato una riformulazione dell’articolo 18 che riscrive in modo netto i parametri per accedere al regime di esclusione parziale dei dividendi. Le società che percepiscono utili da altre società potrebbero trovarsi davanti a un bivio fiscale del tutto nuovo rispetto agli ultimi vent’anni, almeno per quanto riguarda le partecipazioni più contenute.
La norma nella versione iniziale del disegno di legge prevedeva una soglia del 10% del capitale sociale della partecipata come discrimine per mantenere l’esenzione del 95%. Poi è arrivato l’emendamento governativo che ha abbassato quella percentuale al 5%, introducendo contemporaneamente un criterio alternativo legato al valore fiscale della partecipazione. Una mossa che secondo le stime tecniche ridimensiona pesantemente il gettito atteso, che dalle proiezioni iniziali di circa un miliardo all’anno scende a poco più di 30 milioni a regime.
La riscrittura dell’art. 89 del TUIR: cosa cambia davvero
Le modifiche colpiscono direttamente i soggetti IRES e le società di persone commerciali che ricevono dividendi da società partecipate. Secondo quanto previsto dalla riformulazione, l’esclusione dalla base imponibile nella misura del 95% (per le società di capitali) o del 41,86% (per le società di persone) resta operativa solo al ricorrere di condizioni specifiche. La partecipazione diretta nella società distributrice deve essere almeno pari al 5% del capitale, oppure – ed è qui la novità alternativa – deve avere un valore fiscale non inferiore a 500.000 euro.
La norma tiene conto anche delle partecipazioni detenute per via indiretta, quando si verifica un rapporto di controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1, del codice civile. In pratica nelle catene societarie viene effettuato un calcolo con demoltiplicazione lungo la catena partecipativa. Se una holding controlla al 60% una subholding, e questa a sua volta detiene il 15% di una operativa, la partecipazione indiretta si calcola al 9% (60% x 15%), con la conseguenza che potrebbe non raggiungere la soglia minima del 5% necessaria per l’esenzione. Oppure bisogna verificare se il valore fiscale supera i 500.000 euro.
Per le partecipazioni che non soddisfano nessuno dei due parametri, i dividendi concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile, quindi tassazione piena al 24% (aliquota IRES). Si passa così da un’imposizione effettiva dell’1,2% a una del 24%, un salto che nella prassi può modificare radicalmente la convenienza degli investimenti in quote di minoranza.
Quando scatta la nuova disciplina e cosa rileva
La decorrenza fissata è il primo gennaio 2026, ma attenzione al parametro temporale: conta la data della delibera di distribuzione, non quella di effettivo pagamento dei dividendi. Quindi gli utili accantonati a riserva fino al 31 dicembre 2025 saranno comunque soggetti al nuovo regime se la delibera assembleare che ne dispone la distribuzione viene assunta dal 1° gennaio 2026 in poi. Una situazione che richiama quella verificatasi nel 2018 con la riforma delle partecipazioni qualificate per le persone fisiche, quando l’Agenzia delle Entrate con il principio di diritto n. 3/2022 chiarì la rilevanza del momento deliberativo pur aprendo alla contestazione di operazioni artificiose.
Le società hanno quindi un margine temporale ristretto per valutare eventuali delibere anticipate di distribuzione, prima che la nuova normativa diventi operativa. Chi ha partecipazioni sotto soglia e vuole ancora beneficiare del vecchio regime dovrebbe agire entro la fine del 2025. Ma attenzione ai profili di elusione: delibere seguite da retrocessioni al socio o caratterizzate da condizioni di pagamento particolarmente dilazionate potrebbero essere sindacate dal fisco, come già avvenuto in passato.
Il doppio binario per mantenere l’agevolazione
La scelta del legislatore di introdurre un parametro alternativo risponde probabilmente alle critiche sollevate nel dibattito parlamentare. Limitarsi alla sola soglia percentuale avrebbe penalizzato in modo indiscriminato investimenti in società quotate o comunque caratterizzati da capitali molto frazionati, dove è praticamente impossibile arrivare al 5%. Con il criterio del valore fiscale di 500.000 euro si apre una finestra per quegli investimenti che, pur non raggiungendo la quota percentuale, hanno comunque una consistenza economica rilevante.
Prendiamo il caso di una società che detiene il 2% di una quotata, quota acquisita a un valore di 700.000 euro. Non supera la soglia del 5% ma rientra nel parametro alternativo, quindi mantiene l’esenzione del 95%. Se invece la stessa società avesse investito 400.000 euro per una partecipazione del 3%, si ritroverebbe fuori da entrambi i criteri con piena tassazione dei dividendi ricevuti. Oppure si pensi a una holding con partecipazioni in dieci società operative, ciascuna al 4% del capitale con valori di 250.000 euro: tutti i dividendi percepiti sarebbero integralmente imponibili.
Il valore fiscale da considerare è quello risultante dalle scritture contabili al momento della distribuzione, non il valore di mercato. Questo significa che partecipazioni acquisite molti anni fa e mai rivalutate potrebbero avere valori fiscali contenuti anche se oggi valgono molto di più. E viceversa, partecipazioni rivalutate in sede di operazioni straordinarie potrebbero superare più facilmente la soglia dei 500.000 euro.
Coordinamento con la PEX sulle plusvalenze
La questione dei dividendi si intreccia con il regime della Participation Exemption sulle plusvalenze da cessione di partecipazioni. L’articolo 87 del TUIR prevede l’esenzione del 95% delle plusvalenze realizzate da società di capitali, ma con requisiti specifici tra cui il possesso ininterrotto per almeno 12 mesi. Secondo alcuni emendamenti in discussione, anche per la PEX si starebbe valutando l’introduzione di una soglia minima del 5% del capitale sociale (o alternativamente un valore fiscale di 2,5 milioni di euro), in coerenza con la nuova disciplina sui dividendi.
Se venisse confermata anche questa stretta, si creerebbe un sistema selettivo complessivo che privilegia le partecipazioni strategiche rispetto a quelle di portafoglio. Una società che detiene quote minoritarie vedrebbe penalizzata sia la fase di percezione dei dividendi sia quella di eventuale realizzo delle plusvalenze. Il tutto senza considerare che gli utili distribuiti sono già stati tassati in capo alla società che li ha prodotti, quindi si torna verso forme di doppia imposizione economica che il sistema della PEX introdotto nel 2003 aveva proprio l’obiettivo di eliminare.
L’impatto sulle holding e sulle strutture partecipative
Le holding patrimoniali, quelle che possiedono portafogli diversificati di partecipazioni minori, si trovano di fronte a uno scenario complicato. Se una holding detiene quote del 3-4% in venti diverse società, tutti i dividendi ricevuti sarebbero tassati al 24% anziché all’1,2%. A meno che singole partecipazioni non abbiano valori fiscali superiori a 500.000 euro. Ma per molte realtà che negli anni hanno costruito portafogli frammentati con investimenti contenuti, il salto impositivo è rilevante.
Alcune strategie difensive potrebbero prevedere l’accorpamento di partecipazioni, magari conferendo in un’unica società veicolo le varie quote oggi sparse. Oppure incrementare le percentuali di partecipazione nelle società ritenute più strategiche, concentrando le risorse disponibili. Ma queste operazioni richiedono tempo e hanno costi non indifferenti, tra notai, commercialisti e imposte indirette.
Le catene partecipative vanno ricalcolate con attenzione. Se HoldCo possiede il 40% di MidCo, e MidCo detiene il 20% di OpCo, la partecipazione indiretta di HoldCo in OpCo è dell’8% (40% x 20%). Potrebbe non bastare per mantenere l’esenzione sui dividendi che salgono da OpCo verso HoldCo attraverso MidCo. Bisogna verificare se il valore fiscale della partecipazione di MidCo in OpCo supera i 500.000 euro, altrimenti i dividendi distribuiti da OpCo risultano pienamente imponibili quando arrivano nelle tasche di HoldCo (anche se passano per MidCo).
Le perplessità degli operatori e delle associazioni
L’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) ha espresso formalmente le proprie riserve sulla riforma. Nel comunicato stampa del 20 novembre 2025 ha evidenziato come l’attuale previsione normativa della Dividend Exemption risponda a criteri di equità e ragionevolezza: serve proprio a evitare una doppia imposizione del medesimo reddito. Si può quindi affermare – secondo l’AIDC – che la disposizione vigente non rappresenta un’agevolazione, ma una previsione di sistema che, se smantellata, produce conseguenze distorsive. Nel caso di distribuzione finale a una persona fisica, il carico fiscale complessivo potrebbe sfiorare il 60% tra tassazione in capo alla società e ritenuta sul percipiente.
AssoNEXT ha a sua volta contestato l’impianto della norma, sostenendo che essa stravolge l’assetto consolidato da oltre vent’anni. La proposta di AIDC è stata quella di superare la logica della soglia percentuale, puntando invece su un criterio di “holding period” minimo, cioè una durata minima di possesso della partecipazione per accedere all’esenzione. Questo approccio sarebbe più coerente con i principi già presenti nell’articolo 87 del TUIR per la PEX sulle plusvalenze, dove è richiesto il possesso per almeno 12 mesi.
Confronto con la direttiva europea e le ricadute internazionali
La soglia del 10% presente nella versione iniziale del disegno di legge richiamava l’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/96/UE (direttiva Madri e Figlie), che prevede proprio quella percentuale come requisito minimo per l’esenzione sui dividendi distribuiti tra società madri e figlie residenti nell’Unione Europea. Con l’abbassamento al 5% ci si allontana da quel riferimento comunitario, creando potenziali incoerenze nel trattamento dei dividendi transfrontalieri rispetto a quelli domestici.
Altro nodo riguarda la ritenuta ridotta dell’1,20% prevista dall’articolo 27, comma 3-ter, del DPR 600/73 per le distribuzioni verso società residenti in UE o nel SEE (Spazio Economico Europeo). Quella ritenuta è stata calibrata per garantire una parità di gettito con il carico teorico che graverebbe su un soggetto IRES residente beneficiario del medesimo dividendo, ipotizzando l’esenzione del 95%. Con la nuova disciplina, un socio comunitario continua a scontare un prelievo di 1,20 ogni 100 distribuiti, mentre un soggetto IRES italiano privo del requisito del 5% si ritrova tassato per 24, generando una evidente divergenza di trattamento che rischia di non essere in linea con i principi europei di non discriminazione.
Profili applicativi e casi particolari
La norma non tocca le persone fisiche che percepiscono dividendi al di fuori dell’esercizio d’impresa, per le quali resta applicabile l’imposta sostitutiva del 26%. Non vengono modificati nemmeno i regimi degli enti non commerciali, per i quali i dividendi concorrono integralmente al reddito complessivo (con le percentuali storiche del 77,74% per utili fino al 31 dicembre 2016). Restano fuori anche i soggetti che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS per le partecipazioni non immobilizzate, che già includevano i dividendi nel reddito complessivo senza esenzioni ai sensi dell’articolo 89, comma 2-bis, del TUIR.
I dividendi provenienti da Paesi a fiscalità privilegiata erano già integralmente tassabili salvo dimostrazione dell’esimente prevista dall’articolo 47 del TUIR, quindi su questo fronte non cambia nulla. Ma va verificata con attenzione l’interazione con le convenzioni contro le doppie imposizioni, perché alcuni trattati prevedono meccanismi di esenzione o riduzione delle ritenute alla fonte che potrebbero non coordinarsi perfettamente con la nuova disciplina interna.
Si pensi a una società italiana che detiene il 3% di una società lussemburghese. I dividendi distribuiti dalla società estera potrebbero subire una ritenuta alla fonte in Lussemburgo ridotta per effetto della direttiva Madri e Figlie (se applicabile) o della convenzione bilaterale. Ma quando arrivano in Italia, se la partecipazione non supera il 5% e non vale almeno 500.000 euro, vengono tassati per intero senza esenzione. La ritenuta estera potrebbe essere recuperata come credito d’imposta, ma l’effetto complessivo resta quello di una maggiore imposizione rispetto al regime attuale.
Scenari operativi e strategie di adeguamento
Chi si trova con partecipazioni sotto soglia ha diverse strade percorribili, ciascuna con i propri pro e contro. La prima opzione è incrementare la quota fino a raggiungere almeno il 5% del capitale sociale. Ma questo richiede liquidità disponibile e la disponibilità degli altri soci a cedere ulteriori quote, cosa non sempre scontata. Inoltre l’acquisto di ulteriori quote comporta costi di transazione e potrebbe spostare equilibri societari delicati.
La seconda strada è verificare se il valore fiscale della partecipazione già detenuta supera i 500.000 euro. In caso negativo, si potrebbe valutare una rivalutazione civilistica ai sensi dell’articolo 2426 del codice civile, oppure operazioni straordinarie come fusioni o scissioni che comportino l’emersione di nuovi valori fiscali. Ma anche qui i costi e la complessità delle operazioni vanno soppesati con attenzione.
Una terza possibilità riguarda la tempistica delle delibere. Anticipare la distribuzione di utili entro il 31 dicembre 2025 consente di applicare ancora il vecchio regime, ma questa strada funziona solo se ci sono utili disponibili e se dal punto di vista finanziario ha senso procedere alla distribuzione proprio in questo momento. Deliberare utili solo per motivi fiscali potrebbe non essere la scelta migliore sul piano della gestione aziendale.
In alcuni casi potrebbe avere senso trasferire le partecipazioni a una società holding di nuova costituzione, magari coinvolgendo altri soci per raggiungere le soglie necessarie. Oppure valutare la cessione delle partecipazioni minori, concentrando le risorse su quelle strategiche dove si detiene già o si può raggiungere almeno il 5%. Ma tutte queste operazioni vanno attentamente pianificate con l’assistenza di professionisti, perché i rischi di commettere errori con conseguenze fiscali pesanti sono concreti.
Gettito atteso e finalità della norma
La relazione tecnica allegata agli emendamenti governativi quantifica gli effetti finanziari in circa 22,7 milioni per il 2026, per poi salire a 32,9 milioni a regime dal 2029. Cifre decisamente inferiori rispetto al miliardo stimato con la soglia del 10%. Questo ridimensionamento deriva proprio dall’introduzione del doppio binario (5% o 500.000 euro) che limita fortemente il numero di partecipazioni effettivamente colpite dalla stretta.
L’obiettivo dichiarato è quello di colpire le partecipazioni meramente speculative, lasciando invece inalterato il trattamento per gli investimenti di natura strategica o comunque di dimensione rilevante. Ma la ratio della norma è stata contestata da più parti, perché il rischio è di penalizzare anche investimenti legittimi in società quotate o in portafogli diversificati, senza che questo risponda a un’effettiva esigenza di contrasto a fenomeni elusivi.
La scelta di recuperare gettito attraverso altre voci della manovra – come la riduzione della deducibilità delle perdite pregresse per le banche (circa 600 milioni in due anni) e l’aumento dell’aliquota sulle polizze RC auto per gli infortuni al conducente (poco più di 100 milioni annui) – conferma che la stretta sui dividendi ha un peso finanziario ridotto rispetto ad altre misure.
Coordinamento con altre disposizioni fiscali e contabili
La nuova disciplina si inserisce in un quadro normativo già articolato. Va coordinata con le regole sulla deducibilità degli interessi passivi, perché le società che finanziano l’acquisto di partecipazioni con debito potrebbero trovarsi in una situazione di squilibrio: interessi pienamente deducibili ma dividendi integralmente tassabili se le partecipazioni sono sotto soglia. Questo potrebbe scoraggiare operazioni di leveraged buy-out su partecipazioni minori o comunque modificare le scelte di struttura finanziaria dei gruppi.
Sul piano contabile, occorre prestare attenzione alla valutazione delle partecipazioni. Se una partecipazione viene svalutata civilisticamente, il valore fiscale si abbassa di conseguenza e potrebbe scendere sotto i 500.000 euro, facendo perdere l’accesso all’esenzione anche se la quota percentuale supera il 5%. Al contrario, in presenza di avviamenti iscritti in occasione di operazioni straordinarie, il valore fiscale potrebbe risultare gonfiato e superare la soglia anche per partecipazioni di piccole dimensioni.
Le holding che adottano i principi contabili internazionali devono verificare l’interazione con le regole IAS/IFRS sulla valutazione delle partecipazioni. Se una partecipazione è classificata come “disponibile per la vendita” potrebbe ricadere nel comma 2-bis dell’articolo 89 del TUIR, con esclusione in ogni caso dal regime di esenzione. Questi aspetti vanno analizzati caso per caso con il supporto dei consulenti, perché la casistica è ampia e le conseguenze fiscali possono essere rilevanti.



