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Controlli fiscali formazione 4.0: quando l’incrocio dei dati smonta il credito d’imposta

28 Maggio, 2025

L’Agenzia delle Entrate non si accontenta più della documentazione formale per validare il credito d’imposta Formazione 4.0. Gli accertamenti in corso dimostrano come l’Amministrazione finanziaria stia adottando un approccio sempre più sostanziale, incrociando calendari formativi, buste paga e registri delle presenze per verificare l’effettivo svolgimento delle attività dichiarate.

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Il credito sotto la lente dell’Agenzia

Il credito d’imposta previsto dall’articolo 1, comma 46, della Legge n. 205/2017 – quello per intenderci legato alle attività formative del Piano Industria 4.0 – continua a far discutere anche dopo la sua cessazione. A differenza dei bonus edilizi, dove i controlli sostanziali sono ancora in fase di avvio, qui l’attività ispettiva è già ben avviata e, bisogna dirlo, piuttosto incisiva.

La casistica che emerge dai processi verbali di constatazione analizzati dal Centro Studi Fiscal Focus rivela un quadro complesso. L’Amministrazione non si limita più a verificare la presenza del fascicolo documentale richiesto dall’articolo 6 del Decreto 4 maggio 2018, ma va molto oltre.

Documentazione richiesta: non solo carta

Secondo la normativa di riferimento, l’impresa beneficiaria deve conservare una serie di documenti specifici. Si tratta della certificazione contabile del revisore (o del soggetto incaricato della revisione legale), della relazione sulle modalità organizzative e sui contenuti formativi, dei registri nominativi sottoscritti da discenti e docenti. In alcuni casi – e questo è un aspetto che spesso viene sottovalutato – sono state richieste anche le slide e le dispense utilizzate durante le sessioni formative.

Ma è proprio qui che inizia la parte più delicata dell’attività ispettiva. Nella prassi applicativa si osserva come l’Agenzia non si fermi alla documentazione “di base”.

L’incrocio dei dati: il vero test

Il metodo di controllo che sta emergendo con maggiore frequenza è quello dell’incrocio sistematico dei dati. Partendo dal calendario delle attività formative fornito dall’impresa stessa, i verificatori procedono con interviste mirate ai dipendenti presenti nei registri. L’obiettivo è individuare eventuali discordanze fra le dichiarazioni rilasciate e quanto risulta dal Libro Unico del lavoro.

Come spesso accade in questi casi, i risultati sono stati… diciamo illuminanti. Dall’analisi dei dati è emerso che molte attività formative risultavano svolte in giornate in cui i dipendenti interessati erano assenti o impegnati in trasferte fuori dal territorio comunale.

Buste paga e documenti di trasporto sotto esame

L’Amministrazione finanziaria ha affinato le proprie tecniche di verifica analizzando le buste paga per intercettare eventuali indennità di trasferta erogate negli stessi giorni delle presunte attività formative. Non solo: anche i documenti di trasporto vengono passati al setaccio per verificare i nominativi degli autisti e le loro sottoscrizioni autografe.

È un lavoro certosino, bisogna ammetterlo. I verificatori controllano se i dipendenti che risultavano in formazione fossero contemporaneamente impegnati in consegne presso i clienti. Un aspetto che molte imprese, evidentemente, non avevano considerato con la dovuta attenzione.

La sostanza prima della forma

Nell’esperienza applicativa emerge chiaramente come l’Agenzia punti alla sostanza più che alla forma. Prima di entrare nel merito dei contenuti formativi e della loro corrispondenza con i requisiti normativi, gli organi ispettivi si concentrano sul presupposto dell’effettivo svolgimento delle attività.

È una condizione essenziale, del resto. Se il personale non è stato realmente impegnato nelle attività formative dichiarate, il credito d’imposta perde ogni ragione d’essere. E qui scattano le contestazioni per inesistenza del credito, con tutto quello che ne consegue in termini di sanzioni amministrative e – nei casi più gravi – penali.

Le conseguenze: quando i numeri fanno paura

La giurisprudenza ha talvolta interpretato con particolare rigore i casi di compensazione di crediti inesistenti. Quando l’importo annuo supera i cinquantamila euro, si configura il reato previsto dall’articolo 10-quater, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000, con reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Un aspetto che merita particolare attenzione – e che spesso viene trascurato nella pratica professionale – è che questo reato non può beneficiare delle cause di non punibilità dell’articolo 13 dello stesso decreto. In caso di ravvedimento operoso, quindi, potranno essere riconosciute solo le attenuanti previste dall’articolo 13-bis.

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