La manovra finanziaria per il 2026 ha scelto di colpire un nervo scoperto del sistema fiscale italiano. Si parla di dividendi, certo, ma la questione va ben oltre. Quella che tecnicamente viene definita “participation exemption” – un meccanismo pensato oltre vent’anni fa per evitare che lo stesso utile venisse tassato due volte – rischia di subire una trasformazione che molti operatori del settore definiscono preoccupante.
La norma contenuta nell’articolo 18 del disegno di legge introduce una soglia minima del 10% per continuare a godere dei benefici fiscali. Chi detiene partecipazioni inferiori dovrà fare i conti con un carico tributario sensibilmente più pesante. Il passaggio non è da poco: si passa da una tassazione effettiva dell’1,2% al 24%. Una differenza che, secondo le stime governative, dovrebbe garantire alle casse dello Stato circa 1 miliardo di euro l’anno.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- Dal 1° gennaio 2026, la participation exemption al 95% sui dividendi vale solo se la partecipazione è almeno del 10%.
- Sotto tale soglia, il dividendo ricevuto da società di capitali sarà tassato interamente con aliquota IRES 24% (anziché solo sul 5%).
- L’impatto riguarda holding, fondi, grandi gruppi e molti soggetti che hanno partecipazioni minoritarie.
- Modifica normativa sugli articoli 59 e 89 TUIR, vale anche per partecipazioni estere e strumenti finanziari partecipativi.
- Significativo aumento del carico fiscale e rischio doppia imposizione economica.
- Attenzione alle criticità per catene societarie e possibili modifiche in sede parlamentare.
La riforma che ridisegna gli equilibri societari
Fino a questo momento la distribuzione degli utili tra società seguiva una logica abbastanza lineare. Secondo quanto previsto dall’articolo 89 del TUIR, i dividendi percepiti da società di capitali ed enti commerciali residenti godevano di un’esenzione del 95%. In pratica solo il 5% dell’importo concorreva alla formazione del reddito imponibile. Un sistema nato con la riforma Tremonti del 2003, recependo una direttiva europea che mirava proprio a eliminare (o quantomeno ridurre drasticamente) la doppia imposizione economica.
La modifica normativa interviene su questo consolidato assetto. Dal 1° gennaio 2026 – ammesso che il testo venga confermato nella versione definitiva – l’esenzione del 95% resterà applicabile soltanto quando la società percettrice detiene almeno il 10% del capitale della società che distribuisce gli utili. Va detto che nel calcolo della soglia si considerano anche le partecipazioni indirette, quelle detenute attraverso società controllate, applicando il meccanismo della demoltiplicazione lungo la catena partecipativa.
Per chi resta sotto questa soglia cambia tutto. L’intero ammontare del dividendo diventa imponibile ai fini IRES. Tradotto in termini concreti, significa applicare l’aliquota del 24% sull’intero importo, non più solo sul 5%.
Gli effetti pratici sulle imprese italiane
Proviamo a capire meglio cosa significa nella prassi operativa. Una società che detiene una partecipazione dell’8% in un’altra azienda e riceve 100.000 euro di dividendi, secondo le regole attuali, vede concorrere alla formazione del reddito solo 5.000 euro (il 5% di 100.000). Con l’aliquota IRES al 24%, l’imposta effettiva ammonta a 1.200 euro – da qui deriva quel famoso 1,2% di tassazione complessiva.
Con la nuova disciplina, quegli stessi 100.000 euro concorrono integralmente alla base imponibile. L’imposta sale a 24.000 euro. Venti volte tanto. Non serve essere fiscalisti per capire l’impatto che questo può avere sui bilanci aziendali.
La questione tocca diverse tipologie di soggetti. Holding finanziarie, veicoli di investimento, fondi di private equity che tipicamente detengono partecipazioni minoritarie in diverse società. Ma anche, e questo è forse l’aspetto più delicato dal punto di vista politico, alcuni grandi gruppi italiani. Si è fatto il nome di Unicredit con le sue quote in Mediobanca e Generali, del Banco BPM per la partecipazione in Monte dei Paschi di Siena (4,4%), di imprenditori come Francesco Gaetano Caltagirone per la sua presenza nel capitale di Generali.
La modifica degli articoli 59 e 89 del TUIR
Dal punto di vista tecnico-normativo, l’intervento modifica due disposizioni cardine del Testo Unico delle Imposte sui Redditi. L’articolo 59, che disciplina la tassazione dei dividendi per le società di persone, viene riscritto introducendo il vincolo della soglia minima. Analogamente per l’articolo 89, che riguarda le società di capitali e gli enti commerciali.
Secondo quanto stabilito dalla nuova versione del comma 2 dell’articolo 89 TUIR, non concorrono alla formazione del reddito nell’esercizio in cui sono percepiti – e qui sta il punto – gli utili derivanti da partecipazioni dirette non inferiori al 10%. L’esclusione resta fissata nella misura del 95% del loro ammontare. La formulazione normativa prevede che si consideri anche la demoltiplicazione prodotta dalla catena partecipativa nel caso di possesso tramite società controllate.
La norma estende lo stesso criterio agli utili provenienti da soggetti non residenti. Anche per i dividendi di fonte estera vale la regola: esenzione del 95% solo se la partecipazione supera il 10%. Naturalmente devono ricorrere le altre condizioni previste dalla disciplina vigente – ad esempio l’esclusione dei Paesi black list e la dimostrazione di un’attività economica effettiva nel caso di soggetti localizzati in Stati a fiscalità privilegiata.
Le perplessità del mondo imprenditoriale e politico
Non sono mancate le reazioni critiche. Assoholding ha parlato di “rottura rispetto ai principi su cui si fonda la nostra architettura tributaria”. Il presidente Gaetano De Vito ha sottolineato come l’intervento, pur apparendo tecnico, avrebbe conseguenze strutturali sull’intero sistema economico.
Forza Italia ha espresso una “forte contrarietà”. Maurizio Casasco, responsabile del dipartimento Economia del partito, ha evidenziato come l’introduzione della partecipazione minima del 10% “non solo comporta un aumento abnorme della tassazione ma genera una doppia tassazione sugli utili”. L’argomento della doppia imposizione economica torna prepotentemente al centro del dibattito. Se un utile viene tassato una prima volta in capo alla società che lo produce (con l’IRES al 24%) e poi nuovamente in capo alla società che lo riceve come dividendo (ancora al 24%), si arriva a un’imposizione complessiva che supera il 57%.
Anche gli operatori di mercato hanno sollevato perplessità tecniche. Alberto Trabucchi, condirettore generale di Assonime, ha osservato che “la modifica non è nemmeno ben contestualizzata nel nostro sistema: non si coordina col regime di esenzione delle plusvalenze, introduce un doppio binario assolutamente non gestito nella circolazione dei dividendi”.
Il coordinamento con le partecipazioni estere
Un aspetto da non trascurare riguarda il trattamento dei dividendi provenienti da società non residenti. La modifica normativa si applica anche in questo caso, introducendo la medesima soglia del 10%.
Prendiamo il caso di una società italiana che detiene una partecipazione del 7% in una società francese. Attualmente, se vengono rispettate le condizioni previste dall’articolo 89 del TUIR (società residente in uno Stato white list, svolgimento di un’attività economica effettiva), i dividendi percepiti concorrono alla formazione del reddito solo per il 5% del loro ammontare. Con la nuova disciplina, non essendo raggiunta la soglia del 10%, l’intero importo diventa imponibile.
Questo potrebbe spingere alcune strutture societarie a rivedere le proprie strategie di investimento. Si è parlato della possibilità che le imprese siano incentivate a spostare la propria sede in altri Paesi europei dove non vige la doppia tassazione. O ancora, che si assista a operazioni di consolidamento delle partecipazioni per raggiungere almeno il 10% e mantenere il regime agevolato.
L’impatto sulle società di persone e sugli imprenditori individuali
La riforma tocca anche le società di persone e gli imprenditori individuali, attraverso la modifica dell’articolo 59 del TUIR. Qui il meccanismo è leggermente diverso ma il principio resta il medesimo.
Per le persone fisiche esercenti attività d’impresa, attualmente gli utili concorrono alla formazione del reddito nella misura del 58,14% (quindi con un’esclusione parziale del 41,86%). Con la nuova disciplina, questa parziale esclusione viene subordinata al possesso di una partecipazione qualificata, che significa appunto una quota non inferiore al 10%.
Una società in nome collettivo che percepisce dividendi da una partecipazione del 6%, secondo le nuove regole, vedrà l’intero ammontare concorrere alla formazione del reddito imponibile dei soci. Occorre poi verificare il trattamento specifico considerando che i redditi di impresa delle società di persone sono tassati per trasparenza in capo ai soci, secondo le aliquote IRPEF progressive.
Le criticità interpretative e applicative
Alcune questioni rimangono aperte e necessiteranno probabilmente di chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ad esempio, come si determina esattamente la percentuale di partecipazione nel caso di catene societarie complesse? Il riferimento alla demoltiplicazione della catena partecipativa di controllo è chiaro nel principio ma potrebbe risultare complicato nell’applicazione pratica.
Un altro aspetto riguarda la data spartiacque. Secondo quanto emerge dal testo, la decorrenza è fissata al 1° gennaio 2026. Ma cosa rileva ai fini dell’applicazione delle nuove disposizioni? Il momento della delibera di distribuzione degli utili o quello della materiale corresponsione? L’esperienza di precedenti modifiche normative (come quella introdotta dalla Legge 205/2017 per le persone fisiche) suggerisce che dovrebbe rilevare la data di delibera, ma una conferma ufficiale sarebbe opportuna.
Strumenti finanziari partecipativi e altre fattispecie
La norma non si limita agli utili in senso stretto. Vengono ricompresi anche i proventi derivanti da strumenti finanziari partecipativi di cui all’articolo 2346, comma 6, del codice civile. Si tratta di quegli strumenti – diversi dalle azioni – che possono essere emessi dalle società per azioni a fronte di apporti anche di opera o servizi.
Anche in questo caso dovrebbe applicarsi il principio della soglia del 10%, ma si pongono interrogativi specifici. Come si calcola la percentuale di partecipazione quando si tratta di strumenti che non rappresentano quote del capitale sociale in senso proprio? La normativa vigente già prevedeva alcuni criteri, ma l’introduzione della soglia minima potrebbe richiedere ulteriori precisazioni.
Le possibili correzioni in sede parlamentare
Il testo della manovra deve ancora passare al vaglio del Parlamento. Non è escluso che possano arrivare modifiche. Alcune voci hanno ipotizzato che la soglia del 10% sia stata scelta proprio come punto di partenza negoziale, con la possibilità di scendere magari al 5% in sede di discussione parlamentare.
Del resto le pressioni politiche non mancano. Oltre a Forza Italia, anche altre componenti della maggioranza hanno espresso perplessità. Si vedrà se prevarranno le esigenze di gettito – quel miliardo di euro che secondo le stime dovrebbe arrivare – o le preoccupazioni per l’impatto sul sistema produttivo.
Giuseppe Marino, professore di diritto tributario all’Università degli Studi di Milano, ha osservato che “la norma potrebbe essere considerata un passo indietro nell’integrazione del mercato europeo dei capitali”. Un aspetto non secondario, considerando che l’Italia è sempre più chiamata a competere in un contesto internazionale.
Confronto con altri ordinamenti europei
Vale la pena guardare come si comportano altri Paesi su questo fronte. La direttiva europea madre-figlia (2011/96/UE) prevede l’esenzione dalla ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da una società figlia residente in uno Stato membro alla società madre residente in un altro Stato membro, a determinate condizioni. Tra queste, una percentuale minima di partecipazione che gli Stati membri possono fissare fino a un massimo del 10%.
Molti Paesi europei hanno recepito questa direttiva senza porre soglie così elevate per le distribuzioni interne. La scelta italiana di introdurre il vincolo del 10% anche per le partecipazioni tra società residenti rappresenta quindi un inasprimento che non trova necessariamente riscontro in altri ordinamenti.
Questo potrebbe effettivamente creare, come paventato da alcuni commentatori, un incentivo alla rilocalizzazione di alcune strutture societarie. O ancora, favorire l’utilizzo di veicoli esteri per detenere partecipazioni in società italiane, con l’effetto paradossale di mantenere la tassazione più favorevole proprio attraverso il ricorso a strutture transfrontaliere.
Le tabelle riepilogative del nuovo regime
1
REGIME ATTUALE (fino al 31 dicembre 2025)
| Tipo di percettore | Esenzione applicabile | Tassazione effettiva |
|---|---|---|
| Società di capitali (qualsiasi partecipazione) | 95% | 1,2% (5% × 24%) |
| Società di persone (qualsiasi partecipazione) | 41,86% | Variabile secondo aliquote IRPEF |
| Persone fisiche non imprenditori | Ritenuta | 26% |
1
NUOVO REGIME (dal 1° gennaio 2026)
| Tipo di percettore | Soglia partecipazione | Esenzione | Tassazione effettiva |
|---|---|---|---|
| Società di capitali | ≥ 10% | 95% | 1,2% |
| Società di capitali | < 10% | 0% | 24% |
| Società di persone | ≥ 10% | 41,86% | Variabile |
| Società di persone | < 10% | 0% | Variabile |
| Persone fisiche non imprenditori | Qualsiasi | Ritenuta | 26% |



