La Corte di Cassazione torna a occuparsi di un tema che genera spesso contenziosi tra professionisti e Fisco. Con l’ordinanza n. 26553 depositata il 2 ottobre 2025, i giudici di legittimità hanno ribadito un principio che, nella prassi quotidiana, viene talvolta sottovalutato: per portare in deduzione le spese di rappresentanza dal reddito professionale non è sufficiente rispettare il tetto percentuale previsto dalla legge. Serve altro, e questo “altro” si chiama inerenza.
La vicenda presa in esame riguarda un professionista che, nell’anno d’imposta 2013, aveva dedotto vari esborsi riconducibili (almeno in teoria) a spese promozionali: tra questi figuravano l’acquisto di un’opera d’arte e l’erogazione di un premio agli studenti della scuola del paese natale della madre. Il limite dell’1% sui compensi era stato rispettato, ma l’Agenzia delle Entrate aveva comunque contestato la deducibilità. Il motivo? Mancava la prova che quei beni fossero davvero destinati all’attività professionale e non, invece, a finalità personali.<
🕒 Cosa sapere in un minuto
- Limite percentuale non basta: Le spese di rappresentanza sono deducibili entro l’1% dei compensi, ma serve anche la prova dell’inerenza all’attività professionale.
- Onere della prova: Il professionista deve dimostrare che la spesa è stata sostenuta per finalità promozionali o di pubbliche relazioni, non per scopi personali.
- Cosa costituisce prova: Fatture dettagliate, documentazione fotografica, comunicazioni ai clienti, relazioni scritte che illustrino le finalità professionali dell’esborso.
- Criteri di ragionevolezza: La spesa deve essere proporzionata e coerente con le prassi commerciali del settore professionale di riferimento.
- Cassazione n. 26553/2025: Conferma che senza prova dell’inerenza, anche rispettando il tetto dell’1%, la deduzione viene negata dall’Agenzia delle Entrate.
Quando una spesa è davvero inerente all’attività
Il concetto di inerenza rappresenta, da sempre, uno degli snodi più delicati nella determinazione del reddito di lavoro autonomo. La normativa di riferimento si trova nell’articolo 54-septies, secondo comma, del TUIR: le spese di rappresentanza possono essere dedotte nei limiti dell’1% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta. Ma attenzione: il rispetto di questa soglia è solo il primo passo. Non basta, di per sé, a garantire la deducibilità.
Come spesso accade nella casistica tributaria, occorre dimostrare che gli esborsi siano effettivamente collegati all’esercizio della professione. La Cassazione, con la pronuncia in esame, ha voluto mettere l’accento proprio su questo aspetto: non è sufficiente provare che un bene possa astrattamente rientrare tra le spese di rappresentanza per la sua natura intrinseca. Bisogna andare oltre e documentare la destinazione concreta a scopi promozionali, a finalità di pubbliche relazioni, insomma a tutto ciò che serve per far crescere (o mantenere) la clientela e la reputazione professionale.
Nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, il professionista non era riuscito a fornire elementi probatori adeguati. Di conseguenza, l’Agenzia delle Entrate ha ottenuto ragione in tutti i gradi di giudizio.
La definizione mutuata dal mondo dell’impresa
Per comprendere appieno cosa si intenda per “spesa di rappresentanza” nell’ambito del lavoro autonomo, è necessario e fondamentale richiamare la circolare n. 34 del 2009 dell’Agenzia delle Entrate. In quel documento di prassi si chiarisce che la disciplina applicabile ai redditi professionali mutua i criteri previsti per il reddito d’impresa, secondo quanto stabilito dall’articolo 108, comma 2, del TUIR e dal decreto ministeriale del 19 novembre 2008.
Quest’ultimo provvedimento individua le caratteristiche delle spese deducibili: devono essere sostenute ed effettivamente documentate, devono riguardare l’erogazione gratuita di beni o servizi, devono avere finalità promozionali o di pubbliche relazioni. E ancora: il loro sostenimento deve rispondere a criteri di ragionevolezza, deve cioè essere funzionale a generare (anche solo potenzialmente) benefici economici oppure deve risultare coerente con le pratiche commerciali tipiche del settore di appartenenza.
Si consideri che rientrano tra le spese di rappresentanza anche quelle per l’acquisto o l’importazione di beni destinati a essere ceduti a titolo gratuito (i cosiddetti omaggi), nonché le spese per oggetti d’arte, d’antiquariato o da collezione, anche quando questi vengano utilizzati nell’esercizio dell’attività professionale.
Il caso concreto: un’opera d’arte e un premio scolastico
La vicenda portata all’attenzione della Cassazione offre uno spaccato interessante delle difficoltà che si possono incontrare. Il professionista aveva dedotto, tra l’altro, il costo di un’opera d’arte e quello di un premio assegnato agli allievi di un istituto scolastico situato nel comune natale della madre. Entrambe le spese potevano, in astratto, configurarsi come spese di rappresentanza: l’opera d’arte può essere utilizzata per arredare lo studio professionale e trasmettere un’immagine di prestigio; un premio a studenti può rientrare in un’attività di public relation o di sostegno alla comunità locale (con ricadute positive in termini di immagine).
Il problema, però, stava nella mancanza di elementi probatori circa la reale destinazione di questi esborsi. L’acquisto dell’opera poteva essere motivato da puro interesse personale, da collezionismo privato. Il premio agli studenti poteva rispondere a ragioni affettive o familiari, senza alcun collegamento con l’attività professionale. In assenza di documenti, dichiarazioni, elementi oggettivi che dimostrassero il contrario, l’Agenzia delle Entrate ha contestato la deduzione e ha avuto partita vinta.
Inerenza: un requisito da provare attivamente
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, nel corso degli anni, che l’inerenza si configura come il rapporto di diretta e immediata correlazione tra la spesa sostenuta e l’arte o professione esercitata (si veda, a tal proposito, la sentenza n. 3198 del 2015). Non serve un nesso rigido con i singoli compensi percepiti: è sufficiente che la spesa risulti correlata all’attività nel suo complesso, come precisato dalla risoluzione n. 30 del 2006 dell’Agenzia delle Entrate.
Tuttavia, nella pratica professionale si osserva che molti contribuenti tendono a dare per scontato il requisito dell’inerenza, concentrandosi solo sul rispetto del limite percentuale. La pronuncia in commento ricorda, invece, che l’onere della prova grava sul contribuente. È lui che deve dimostrare, con elementi concreti e verificabili, che quella spesa è stata sostenuta per finalità promozionali o di pubbliche relazioni connesse all’attività.
La circolare n. 55 del 2002 aveva già evidenziato che un costo può considerarsi deducibile “solo se ed in quanto risulti funzionale alla produzione del reddito stesso”. Dunque, se manca la prova di questa funzionalità, la deduzione viene meno, a prescindere dal rispetto formale del tetto dell’1%.
Quali elementi possono costituire prova
La Cassazione, con la sentenza n. 14960 del 2010, aveva indicato una strada particolare per la dimostrazione dell’inerenza: la prova può scaturire anche da elementi derivanti da un giudicato penale. Pur non facendo “stato” nel processo tributario, le risultanze di un’assoluzione piena del contribuente in sede penale devono essere valutate autonomamente dalla Commissione tributaria. Si tratta di un’ipotesi particolare, ma che testimonia come il tema della prova dell’inerenza possa intrecciarsi con altre vicende processuali.
Più in generale, nella prassi quotidiana, la prova può essere fornita attraverso: fatture dettagliate che specifichino la natura promozionale del bene o servizio acquistato; documentazione fotografica (ad esempio, l’opera d’arte esposta nello studio professionale); comunicazioni inviate ai clienti o a soggetti terzi che diano conto dell’iniziativa promozionale; relazioni scritte che illustrino le finalità dell’esborso in relazione alla strategia professionale.
Si pensi, ad esempio, a un avvocato che acquista un quadro di un artista locale per esporlo nel proprio studio: se conserva la corrispondenza con la galleria, se redige una breve nota interna che spiega la scelta in chiave di immagine professionale, se magari pubblica una foto sui social o sul sito dello studio, questi elementi possono costituire un corredo probatorio utile in caso di contestazione.
Oppure si consideri un commercialista che sponsorizza un premio per giovani laureati in economia: se documenta la cerimonia di consegna, se menziona l’iniziativa nella propria newsletter professionale, se raccoglie attestazioni dalla scuola o dall’ente che ha organizzato il premio, tutto ciò può contribuire a dimostrare l’inerenza della spesa.
Il limite percentuale dell’1%: necessario ma non sufficiente
Secondo quanto previsto dall’articolo 54-septies, comma 2, del TUIR, le spese di rappresentanza sono deducibili dal reddito professionale entro il tetto dell’1% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta. Questo limite quantitativo va calcolato sui compensi complessivi annotati nei registri, al lordo delle ritenute d’acconto e degli eventuali contributi previdenziali.
Nella determinazione del reddito di lavoro autonomo, dunque, il professionista deve innanzitutto verificare di non aver superato questa soglia. Ma, come ribadito dalla Cassazione, il rispetto del tetto percentuale è soltanto una condizione necessaria, non sufficiente. Anche se le spese rientrano nel limite dell’1%, se non sono inerenti all’attività non possono essere dedotte.
Occorre poi ricordare che, ai sensi del DM 19 novembre 2008, la deducibilità è subordinata al rispetto di criteri di ragionevolezza: la spesa deve essere proporzionata all’obiettivo di generare benefici economici, anche solo potenziali, oppure deve essere coerente con le prassi commerciali del settore. Un professionista che opera in un ambito tradizionale e sobrio difficilmente potrà giustificare esborsi eccessivi per eventi mondani o beni di lusso, mentre un consulente di immagine o un architetto di design potrebbero avere margini più ampi.
Criticità ricorrenti e aspetti spesso trascurati
Nella pratica applicativa, emergono alcune criticità che meritano attenzione. La prima riguarda la documentazione: molti professionisti conservano le fatture ma non predispongono una sorta di “fascicolo giustificativo” che spieghi le ragioni della spesa. Questo può rivelarsi un errore fatale in caso di verifica.
La seconda criticità attiene alla distinzione tra spese personali e spese professionali. Quando si acquista un bene che può avere una duplice destinazione (un’opera d’arte, un oggetto di pregio, una cena in un ristorante di lusso), il rischio di contestazione è elevato. In questi casi, è opportuno predisporre elementi oggettivi che certifichino l’uso professionale: verbali interni, corrispondenza, testimonianze di terzi.
Infine, è opportuno notare che la giurisprudenza ha talvolta interpretato in modo restrittivo il concetto di “finalità promozionali”. Non basta, ad esempio, affermare genericamente che un bene serve a migliorare l’immagine dello studio: occorre specificare in che modo, con quali ricadute concrete (o potenziali) in termini di acquisizione o fidelizzazione della clientela.
Riflessioni operative per i professionisti
La pronuncia della Cassazione offre l’occasione per qualche riflessione operativa. In primo luogo, è consigliabile adottare una procedura interna di classificazione e documentazione delle spese. Ogni esborso che si intende qualificare come spesa di rappresentanza dovrebbe essere accompagnato da una breve nota che ne illustri le finalità e il collegamento con l’attività professionale.
In secondo luogo, è utile conservare traccia delle iniziative promozionali o di pubbliche relazioni: inviti a eventi, comunicazioni ai clienti, articoli sul sito web o sui social, fotografie, attestazioni di terzi. Tutto ciò può costituire un elemento di prova in caso di contestazione.
Inoltre, si deve prestare attenzione ai casi “borderline”, quelli in cui la spesa può ragionevolmente avere una duplice destinazione (personale e professionale). In queste situazioni, la prudenza suggerisce di raccogliere il massimo di elementi documentali o, in alternativa, di rinunciare alla deduzione per evitare contenziosi.
Infine, è bene ricordare che l’onere della prova grava sempre sul contribuente (ai sensi dell’art. 54 del TUIR e della consolidata giurisprudenza). L’Agenzia delle Entrate può limitarsi a sollevare dubbi sulla natura della spesa; sarà poi il professionista a dover dimostrare l’inerenza all’attività.



