La riforma fiscale che ha preso corpo durante il 2024 ha portato con sé una serie di cambiamenti che, francamente, cambiano il modo in cui i professionisti autonomi devono ragionare sulla loro tassazione. E qui stiamo parlando di qualcosa di tutt’altro che marginale: la gestione dei rimborsi spese per chi lavora in regime forfettario. È uno di quegli argomenti che, sulla carta, sembra complicato, ma che una volta compreso consente di risparmiare davvero.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- Dal 2025 i rimborsi spese analitici e tracciabili non sono più tassati nel regime forfettario: restano esclusi dal reddito e dalle soglie di permanenza.
- I rimborsi devono essere dettagliati in fattura e accompagnati da prova di pagamento elettronico (bonifico, carta, ecc.), salvo le spese sostenute all’estero.
- Attenzione: i rimborsi generici o non tracciabili restano tassati e concorrono sia al reddito che alle soglie.
- La spesa rimborsata non è deducibile per chi la effettua: il principio è la neutralità fiscale.
- Il dettaglio e la documentazione restano fondamentali in caso di controllo.
La grande novità del 2025 nei rimborsi forfettari
Fino a tutto il 2024 le cose funzionavano così: un professionista forfettario riceveva un rimborso per una spesa sostenuta (mettiamo un viaggio per incontrare il cliente) e quella somma finiva dritta nel calcolo del suo reddito imponibile. Grosso modo: reddito lordo sui cui si applicava il coefficiente di redditività. Fine della storia, e tasse pagate su cifre che, di fatto, non rappresentavano un vero guadagno. Un buco interpretativo che la legge ha finalmente deciso di tappare.
Dal primo gennaio 2025, il D.Lgs. 192/2024 ha completamente riscritto l’articolo 54 del TUIR. Non si tratta di una piccola modifica, ma di una vera riallocazione del regime fiscale dei rimborsi. La norma ora stabilisce – vedasi il secondo comma, lettera b) dell’articolo 54 – che le somme percepite a titolo di rimborso spese, addebitate analiticamente al cliente, non formano più il reddito. Semplicemente non concorrono.
È vero, c’era stata un’iniziale confusione tra questo decreto e le novità sulla tracciabilità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025. Ma il Decreto-Legge 84 del giugno 2025 – il cosiddetto Decreto Fiscale – ha messo ordine, definendo una volta per tutte il nuovo trattamento. Almeno, questo era l’intento.
Come cambia il calcolo del reddito nel forfettario
Qui tocchiamo il punto pratico. O forse il più interessante. Chi lavora in regime forfettario sa bene che il reddito viene calcolato in modo semplificato: si prende l’importo lordo dei compensi e lo si moltiplica per il coefficiente di redditività che corrisponde al tipo di attività svolta (varia da circa il 40% all’85% a seconda del codice ATECO). E qui sta il vantaggio: i rimborsi analitici, dal 2025, escono completamente da questo calcolo. Non entrano nella base su cui si applica il coefficiente.
Prendiamo un esempio concreto. Un libero professionista consulente di gestione (codice ATECO 70.22) ha un coefficiente di redditività del 78%. Nel 2024, se emeteva una fattura per 1.500 euro di onorario più 400 euro di rimborso spese (supponiamo trasferte), il reddito imponibile era calcolato su 1.900 euro, risultando in 1.482 euro di reddito tassabile (1.900 x 78%). Dal 2025? Il calcolo riguarda solo i 1.500 euro. Reddito imponibile: 1.170 euro (1.500 x 78%). Una differenza di 312 euro all’anno, che a seconda dell’aliquota IRPEF applicata significa circa 100 euro di risparmio ogni singolo anno. Moltiplicato per tanti professionisti, il gettito che lo Stato rinuncia è davvero considerevole.
Ma attenzione: questo vale solo se i rimborsi sono effettivamente analitici e tracciabili. Non è un dettaglio.
Le soglie di permanenza e come non sbagliarsi
Un dubbio lecito che attraversa la mente di molti forfettari: se i rimborsi non sono più compensi, contano ancora per le soglie di permanenza nel regime? Parliamo del limite dei 85.000 euro (per restare dentro il regime nell’anno successivo) e dei 100.000 euro (per esclusione immediata da metà anno in poi).
Secondo una logica coerente con la nuova norma, no. Non dovrebbero contare. Anzi, la stessa Legge 190/2014 che disciplina il regime forfettario fonda i suoi presupposti sulla nozione di “compenso”, definizione che proviene propria dall’articolo 54 del TUIR. Se quella norma esclude formalmente determinate somme dal novero dei compensi, quella esclusione si propaga anche al forfettario. È questione di coerenza sistematica: non si può dire che una cosa non è un compenso per il calcolo del reddito, ma poi è compenso per le soglie.
La prassi amministrativa, peraltro, aveva già riconosciuto principi analoghi in passato. Per esempio, l’interpello della Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate della Lombardia (numero 904-287/2024) aveva chiarito che il riaddebito ad altri professionisti di spese di condivisione locali (affitto, utenze, eccetera) non rappresenta un compenso neppure per un forfettario. E quella interpretazione è stata, di fatto, incorporata nel nuovo articolo 54, lettere b) e c).
Il vincolo della tracciabilità: la vera condizione
Ecco dove le cose diventano un po’ stringenti. Il Decreto Fiscale ha imposto una condizione essenziale: affinché i rimborsi spese non concorrano al reddito, i pagamenti originari devono essere stati eseguiti con strumenti tracciabili. Non è tanto una novità assoluta, ma una specificazione importante.
Secondo il nuovo comma 2-bis dell’articolo 54, per le spese sostenute nel territorio italiano relative a vitto, alloggio, viaggio e trasporto (mediante autoservizi pubblici non di linea, per essere precisi), i rimborsi non concorrono al reddito solo se i pagamenti originari sono stati fatti con bonifici bancari o postali, carte di credito, carte di debito o altri sistemi di pagamento tracciabili. Tutto quello che prevede il decreto legislativo 241 del 1997.
Cosa significa nella prassi? Che il professionista che paga una colazione con denaro contante non può riaddebiterla in rimborso analitico e farla uscire dal reddito. O, quantomeno, si crea un’ambiguità che conviene evitare. Il rischio è che l’Agenzia delle Entrate contesti il rimborso, sostenendo che manca la prova della tracciabilità. Detto altrimenti: gli addebiti generici e forfettari (tipo “rimborsi vari 250 euro”) continuano a essere considerati compensi, con tutte le conseguenze fiscali che ne seguono.
Diverso è il discorso per le spese sostenute all’estero. In quel caso, il vincolo della tracciabilità non sussiste. I rimborsi non concorrono al reddito indipendentemente dal metodo di pagamento utilizzato. Una scelta che ha una sua logica: tracciare pagamenti avvenuti in altre giurisdizioni è di fatto impossibile, quindi la norma non lo richiede.
Quando il rimborso deve essere analitico e dettagliato
Qui siamo nel territorio della fattualità operativa, quello che separa la teoria da quello che accade davvero in uno studio professionale. Perché il rimborso sia qualificabile come tale, non come compenso coperto da un’etichetta generica, è fondamentale che in fattura sia analiticamente dettagliato e ben distinto dall’onorario.
Cosa significa? Che il professionista deve scrivere qualcosa come:
“Onorario per consulenza: 1.500,00 euro Rimborsi spese analitici:
- Viaggio aereo Roma-Milano: 250,00 euro
- Pernottamento hotel (due notti): 380,00 euro
- Pasti durante trasferta: 120,00 euro (Sostenuti con bonifico bancario/carta di credito)”
Non un generico “rimborsi spese 750 euro”, perché quello continua a essere assimilato a un compenso a tutti gli effetti, con conseguenze tassative poco piacevoli. L’Agenzia delle Entrate è piuttosto rigorosa su questi aspetti. Non è un’obbligazione che viene verificata salta l’occasione, ma una norma scritta.
Il dettaglio della tracciabilità deve comparire in allegato oppure documentato separatamente: ricevute, estratti conto, fatture dell’albergo. Non è che l’Agenzia normalmente entra negli allegati di una dichiarazione dei redditi, ma in caso di verifica la documentazione deve esistere, eccome.
La simmetria tra esclusione e indeducibilità
Un aspetto che viene spesso trascurato, ma che è importante comprendere. Se il rimborso non concorre al reddito del professionista, specularmente la spesa sostenuta non è deducibile da chi la rimborsa. Questo è il principio di neutralità fiscale, la base della riforma.
Prima della novità, il professionista che riceveva il rimborso lo tassava (sotto il regime forfettario), e il cliente che lo pagava se lo portava a deduzione. Una doppia tassazione indiretta, per così dire, che generava una certa inefficienza. Adesso i due lati si azzerano: non entra nel reddito di uno, non esce dal reddito dell’altro.
È una logica coerente, però comporta implicazioni che vanno considerate dal punto di vista della contabilità aziendale di chi rimborsa. Se il professionista ha una società che lo remunera, i rimborsi che la società gli rifa non potranno essere portati a deduzione. Sono, per così dire, “operazioni neutre” dal punto di vista fiscale. Acconto ed esborso si annullano. È il motivo per cui l’articolo 54-ter del TUIR parla di indeducibilità.
Un quadro ancora da chiarire completamente
Vero è che la normativa ha cercato di fare chiarezza, ma non tutti i dubbi si sono dissolti. Qualche incertezza persiste, soprattutto circa l’applicazione effettiva a certi casi limite o a particolari tipologie di spese. La giurisprudenza e la prassi amministrativa faranno il resto nei prossimi mesi, probabilmente qualche interpello arriverà alle Direzioni Regionali, e con il tempo il quadro diventerà ancora più nitido.
Nel frattempo, il consiglio pratico rimane: dettagliare sempre, tracciare sempre, documentare sempre. Specialmente per chi lavora in regime forfettario, dove il vantaggio della nuova normativa c’è, è concreto, ma dipende dal rispetto di questi precetti formali.
Le novità del 2025 sui rimborsi spese forfettari rappresentano un progresso, non c’è dubbio. Eliminano una disparità di trattamento che andava avanti da anni, rendendo il regime forfettario leggermente meno penalizzante su questo fronte specifico. Ma come spesso accade nel diritto tributario, il diavolo sta nei dettagli di implementazione.



