Il viceministro all’Economia Maurizio Leo ha confermato che il governo sta lavorando per ottenere una nuova proroga della riforma IVA destinata agli enti del terzo settore. La modifica normativa, prevista a partire dal 1 gennaio 2026, potrebbe slittare nuovamente in avanti grazie alle interlocuzioni in corso con l’Unione Europea.
Le dichiarazioni di Leo, rilasciate durante l’evento Speciale Telefisco 2025 del quotidiano Il Sole 24 Ore lo scorso 18 settembre, hanno confermato quello che molti operatori del settore già sospettavano. Gli enti del terzo settore italiani – associazioni sportive dilettantistiche, organizzazioni culturali, sodalizi religiosi e assistenziali – non sono ancora pronti per affrontare il passaggio dal regime di esclusione a quello di esenzione IVA.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- Il governo sta trattando una nuova proroga della riforma IVA per gli enti del terzo settore, prevista dal 1 gennaio 2026.
- La transizione dall’esclusione all’esenzione IVA impone apertura partita IVA, fatturazione elettronica e nuovi adempimenti anche ad associazioni minori.
- La richiesta di proroga nasce dalle complessità operative e burocratiche, su cui il governo dialoga con la UE per soluzioni differenziate.
- Si valuta che le piccole realtà possano restare escluse, mentre le più strutturate transiteranno con regole più semplici.
- La riforma può avere impatto sul settore non profit da 860.000 addetti: rischio aggravi, ma anche valorizzazione del ruolo strategico nel welfare.
Un quadro normativo in evoluzione
La riforma prevista dal decreto-legge 146/2021 doveva rivoluzionare l’approccio fiscale delle organizzazioni non profit. Secondo quanto disposto dall’art. 5, comma 15-quater, le prestazioni rese da questi enti ai propri associati dietro pagamento di corrispettivi specifici o contributi supplementari dovevano transitare dal regime di esclusione (previsto dall’art. 4, comma 4, del DPR 633/1972) a quello di esenzione disciplinato dall’art. 10 dello stesso decreto presidenziale.
Il meccanismo appare lineare sulla carta. Nella prassi operativa, però, le implicazioni sono ben più complesse. Il regime di esenzione IVA comporta infatti l’apertura di partita IVA, la tenuta di registri, l’emissione di fatturazione elettronica e il rispetto degli obblighi di liquidazione periodica. Un salto qualitativo significativo per realtà che spesso operano con risorse limitate e competenze amministrative essenziali.
Le difficoltà applicative del nuovo sistema
“Abbiamo speso tutte le energie per spiegare in Europa le particolarità degli Enti del terzo settore italiani”, ha sottolineato Leo durante il suo intervento. Una frase che racchiude le complessità di un negoziato europeo avviato già nel 2010 con l’apertura di una procedura di infrazione.
Il panorama associativo italiano presenta caratteristiche uniche nel contesto comunitario. Migliaia di piccole realtà territoriali operano con volontari, gestiscono budget modesti e svolgono attività prevalentemente sociali. L’applicazione pedissequa delle direttive europee rischia di creare un cortocircuito amministrativo per organizzazioni che – spesso – fatturano poche migliaia di euro all’anno.
Si consideri l’ipotesi di una piccola associazione sportiva dilettantistica che gestisce corsi di nuoto per bambini. Attualmente, i contributi versati dai genitori sono esclusi dall’ambito IVA. Con la nuova disciplina, questi stessi importi diventerebbero esenti, obbligando l’associazione ad aprire partita IVA, emettere fatture elettroniche e presentare dichiarazioni periodiche. Il carico burocratico risulterebbe sproporzionato rispetto al volume d’affari.
Le interlocuzioni con l’Unione Europea
Il governo italiano sta negoziando quella che Leo ha definito una “moratoria lunghissima”. L’obiettivo dichiarato è ottenere tempo sufficiente per consentire un adeguamento graduale del settore e, possibilmente, per definire criteri differenziati che tengano conto delle dimensioni e della natura dell’ente.
La strategia italiana punta a convincere Bruxelles che il terzo settore rappresenta una specificità del sistema economico e sociale del paese. Non si tratta di una mera elusione degli obblighi comunitari, ma della necessità di preservare un tessuto associativo che costituisce un pilastro del welfare nazionale.
Come spesso accade nelle dinamiche europee, la partita si gioca su più tavoli. Da un lato, la Commissione europea mantiene la pressione per il rispetto delle direttive in materia di IVA. Dall’altro, il governo italiano cerca margini di manovra invocando il principio di proporzionalità e la salvaguardia di interessi sociali rilevanti.
Un comparto strategico per l’economia
“Questo comparto è strategico per l’economia”, ha precisato Leo, fornendo una chiave di lettura interessante. Il terzo settore non rappresenta solo un insieme di organizzazioni benefiche, ma costituisce un vero e proprio segmento produttivo che genera occupazione, eroga servizi e contribuisce al PIL nazionale.
I numeri parlano chiaro: il settore non profit occupa oltre 860.000 persone, gestisce un patrimonio di decine di miliardi di euro e fornisce servizi essenziali in ambiti come assistenza sociale, cultura, sport e formazione. Applicare meccanicamente le regole IVA ordinarie rischia di compromettere questo ecosistema.
È opportuno notare che la questione non riguarda solo gli aspetti tecnici dell’imposta sul valore aggiunto. Il passaggio al regime di esenzione potrebbe infatti generare effetti collaterali indesiderati, come la qualificazione di natura commerciale di attività finora considerate istituzionali, con conseguente assoggettamento a IRES e IRAP.
Le tempistiche della riforma fiscale
Secondo le anticipazioni del viceministro, le trattative con l’UE si trovano “in fase avanzata”. Un’espressione diplomatica che lascia intravedere margini di ottimismo, pur senza fornire certezze definitive sui tempi e sui contenuti dell’accordo.
La riforma fiscale in corso di elaborazione potrebbe rappresentare la cornice ideale per inquadrare la questione. Il decreto Milleproroghe ha già concesso dodici mesi aggiuntivi per il 2025, dimostrando la disponibilità del legislatore a graduare l’applicazione delle novità.
L’ipotesi più accreditata prevede l’introduzione di criteri differenziati basati su parametri dimensionali o tipologici. Le organizzazioni più piccole potrebbero rimanere nel regime di esclusione, mentre quelle con caratteristiche più strutturate transiterebbero verso l’esenzione con modalità semplificate.