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Rateazione debiti INPS

Rateazione debiti INPS: come funziona fino a 60 mesi

11 Novembre, 2025

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Chi si trova in difficoltà di cassa può finalmente distribuire il pagamento dei contributi arretrati su periodi molto più lunghi. A partire dal 1° gennaio scorso, una novità contenuta nel Collegato lavoro ha stravolto le regole sulla dilazione dei debiti verso INPS e Inail, portando il tetto massimo da 24 a 60 rate mensili. Ma le cose non sono così automatiche come potrebbe sembrare. Occorre seguire procedimenti precisi e dimostrare una situazione di effettiva difficoltà economica documentabile.

🕒 Cosa sapere in un minuto

  • Chi: Contribuenti INPS e Inail in difficoltà economica temporanea
  • Come: Domanda telematica all’istituto con dichiarazione di difficoltà economico-finanziaria
  • Durata: Fino a 36 mesi (debiti ≤ €500.000) o 60 mesi (debiti > €500.000)
  • Rata minima: €150 mensili per rata singola
  • Vincoli: Continuare a pagare i contributi correnti; rischio revoca se non si versa anche una sola rata
  • Novità: Possibilità di seconda dilazione per debiti ulteriori anche durante un piano già attivo
  • Riferimento: Art. 23 Legge 203/2024 (Collegato lavoro); vigente dal 1° gennaio 2025

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Cosa cambia con la nuova rateazione lunga

La legge n. 203/2024 ha introdotto una modifica importante all’articolo 2 del decreto legge 338/1989. Da gennaio 2025, dunque, INPS e Inail dispongono di margini molto più ampi rispetto al passato. Se prima consentivano di diluire il pagamento al massimo in 24 mensilità, oggi i due istituti possono arrivare fino a 60 rate nei casi in cui sussista una “dichiarata temporanea situazione di obiettiva difficoltà economico-finanziaria”.

Questo non significa che chiunque abbia debiti contributivi possa accedervi. Rimane un’eccezione alle regole ordinarie, non una pratica generalizzata. La situazione di crisi deve ricorrere effettivamente e deve essere comunicata al momento della presentazione della richiesta. Non si tratta di un’autogiustificazione vaga, ma di una dichiarazione formale che gli istituti valutano secondo criteri che stanno ancora definendo nei loro regolamenti attuativi.

Le due fasce di importo

Come spesso accade nella legislazione tributaria italiana, tutto dipende dall’ammontare complessivo del debito. La disciplina prevede due scaglioni distinti. Per i contributi e gli accessori fino a 500.000 euro, la rateazione amministrativa può arrivare al massimo a 36 mesi. Se il debito è superiore a quella soglia, allora il termine si allunga fino a 60 mesi. Questo doppio binario rispecchia l’idea che una piccola azienda e un’impresa medio-grande necessitano di tempistiche diverse per rimettersi in piedi.

Potrebbe capitare, ad esempio, che un titolare di partita IVA con 250.000 euro di contributi arretrati ottenga 36 rate. Se invece il debito fosse di 600.000 euro, potrebbe dilazionarlo in 60 tranches. La differenza non è banale dal punto di vista della gestione della liquidità mensile.

Quando nasce il diritto alla dilazione

Non appena il debitore comunica la propria situazione di difficoltà economica in forma dichiarativa, i due istituti hanno l’obbligo di valutare il merito della domanda. Sono stati loro stessi a dover definire, entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto attuativo sulla Gazzetta ufficiale, i requisiti specifici, i criteri di valutazione e le modalità operative attraverso atti dei loro Consigli di amministrazione. Questa scadenza è già passata, dunque il sistema dovrebbe essere pienamente operativo. Tuttavia, la prassi effettiva varia a seconda delle circolari interne di ciascun istituto.

Per INPS, occorre consultare il portale telematico dell’ente per capire come presentare la domanda di rateazione e quali documenti allegare per provare la situazione di difficoltà. Analogamente per Inail, che gestisce i debiti relativi ai premi assicurativi. Non è detto che basti un’autodichiarazione; in alcuni casi potrebbe essere richiesta documentazione contabile, certificati di società di rating, bilanci certificati o flussi di cassa.

La questione della seconda dilazione

Qui viene un elemento interessante: la normativa consente, per la prima volta in modo esplicito, di concedere una seconda dilazione anche quando un piano di rateazione è già in corso. Se il debitore sta già pagando secondo un accordo precedente e nel frattempo emerge un ulteriore debito contributivo oppure una nuova crisi di liquidità, non è precluso il ricorso a un secondo piano di pagamento rateizzato.

Questo rappresenta una significativa apertura rispetto alla pratica precedente, dove era quasi proibitivo ottenere contemporaneamente più piani di dilazione. Tuttavia, anche in questo caso, Inps e Inail definiranno modalità precise e condizioni per evitare abusi del sistema. Ci sarà probabilmente un limite massimo al numero di dilazioni concedibili nello stesso anno oppure nel medesimo triennio.

Requisiti e condizioni da soddisfare

Affinché la richiesta vada a buon fine occorre prestare attenzione a parecchi dettagli operativi. Innanzitutto, il debito deve riguardare contributi, premi e accessori di legge non ancora affidati agli agenti della riscossione. Se Inps o Inail hanno già emanato un avviso di addebito e lo hanno incaricato il funzionario competente a procedere con cartella esattoriale o messo di riscossione, allora il treno è ormai partito e la dilazione amministrativa non è più possibile.

Secondo, colui che chiede la rateazione non deve vantare already attive un’altra dilazione in corso presso lo stesso istituto. O meglio: questa regola è stata un po’ flessa dalla novità della “seconda dilazione”, ma di base rimane il principio secondo cui non si possono accumulare decine di piani paralleli. Terzo, non devono sussistere provvedimenti di revoca della rateazione nel biennio precedente. Se in passato l’ente è dovuto intervenire per revocare una dilazione precedente per mancato versamento, la strada si complica.

In aggiunta, ogni singola rata non deve scendere al di sotto di 150 euro. È un paletto per evitare che si segmentino i debiti in frammenti ridicoli difficili da gestire amministrativamente. E poi, dato fondamentale per superare eventuali controlli: il debitore deve riconoscere in modo esplicito e incondizionato il debito stesso. Non è ammesso contestare parallelamente l’esistenza della prestazione mentre si chiede di dilazionarla. O accetti il debito, oppure lo contesti in giudizio; non si può fare entrambe le cose contemporaneamente.

La continuazione del versamento corrente

Un aspetto spesso sottovalutato: anche se si ottiene la dilazione dei debiti pregressi, l’obbligo di versare i contributi mensili rimane assolutamente intatto. Se un’azienda continua a non pagare le quote ordinarie (cosiddetto “debito corrente”), il rischio di revoca della dilazione è altissimo. Questa è una delle cause prevalenti di fallimento dei piani di rientro. Inps e Inail rimangono vigili su questo fronte e non tollerano che si diluisca il vecchio debito mentre se ne accumula uno nuovo.

Dunque chi sceglie questa strada deve comprendere bene il sacrificio finanziario che sta per affrontare: da una parte le rate mensili del vecchio debito dilazionato, dall’altra i contributi ordinari. Il tutto deve rimanere coerente con i flussi di cassa realistici dell’azienda o del professionista.

Tempi di applicazione e transizione

La normativa è entrata in vigore il 12 gennaio 2025. Chi aveva già presentato domanda di rateazione prima di quella data, con le regole vecchie, ha diritto di chiedere la modifica del piano esistente per beneficiare delle nuove modalità di calcolo fino a 60 rate. Non è automatico, però; serve una domanda formale e esplicita presentata al proprio istituto previdenziale entro le scadenze indicate dalle circolari attuative.

Le domande presentate a partire dal 30 gennaio 2025 e successivamente (cioè 30 giorni dopo il 12 gennaio) entreranno nel nuovo regime direttamente, senza necessità di modifiche. Chiunque presenti istanza oggi, in novembre 2025, si troverà già nel quadro normativo completo, con i regolamenti di Inps e Inail pienamente operativi.

Che cosa accade se il pagamento non avviene

La revoca della dilazione è la conseguenza naturale e quasi automatica se la prima rata viene mancata. Non c’è una tolleranza particolarmente generosa; uno o due mesi di ritardo possono attivare i meccanismi di revoca. A quel punto, il debito torna integrale e l’ente procede al recupero coattivo tramite cartella esattoriale. Quindi, per chi decide di aderire a un piano di rateazione, è fondamentale mettere in conto questo impegno senza margini di errore.

Un’altra considerazione: la revoca può essere disposta anche se durante il corso della dilazione emerge una situazione di miglioramento economico tale da suggerire che la difficoltà non sussiste più. Gli istituti controllano, soprattutto le aziende di una certa dimensione, e se accertano una ripresa significativa dei ricavi o uno squilibrio tra la pretesa difficoltà dichiarata e la realtà gestionale, intervengono.

Il quadro operativo sintetico

Ricapitolando le fasi concrete: si presenta la domanda di rateazione all’istituto competente (INPS per i contributi versati al fondo pensioni dipendenti o autonomi; Inail per i premi assicurativi infortunio). Si allega la dichiarazione di difficoltà economico-finanziaria, corredata da tutta la documentazione richiesta dalla circolare attuativa dell’ente (che potrà includere bilanci, flussi di cassa, certificazioni bancarie, attestazioni di rating, ecc.). L’istituto esamina la documentazione e decide entro i termini previsti dal regolamento (di solito pochi mesi). Se accoglie, emette un provvedimento che fissa il numero di rate, l’importo della rata singola (almeno 150 euro) e la scadenza di ogni versamento.

A partire da quel momento, il debitore versa secondo il piano stabilito e contemporaneamente continua a pagare i contributi ordinari in corso. Il termine massimo della dilazione non potrà oltrepassare 36 mesi per debiti fino a 500.000 euro e 60 mesi per importi superiori, ma gli istituti potranno stabilire termini inferiori caso per caso.

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