Il panorama fiscale immobiliare si è arricchito – o forse complicato – di una nuova variabile che sta creando non pochi grattacapi ai professionisti del settore. Il Consiglio Nazionale e la Fondazione dei Commercialisti hanno recentemente diffuso un documento di approfondimento che analizza quella che, nella prassi, viene ormai comunemente definita la “tassa sulla riqualificazione energetica”. Si tratta, tecnicamente, della disciplina introdotta dall’articolo 1, commi 64-66, della Legge 30.12.2023 n. 213, che ha inserito nel tessuto normativo del TUIR la lettera b-bis) all’articolo 67, comma 1. Una modifica apparentemente tecnica, ma dalle conseguenze tutt’altro che marginali per chi ha beneficiato del cosiddetto Superbonus e ora si trova a dover vendere l’immobile oggetto degli interventi. La Commissione di studio “Fiscalità immobiliare e della transizione ecologica”, ha prodotto un’analisi che mette in luce le numerose zone d’ombra di questa normativa. Come spesso accade, infatti, il legislatore ha introdotto una disciplina che sulla carta appare lineare, ma che nella prassi applicativa genera una serie di interrogativi ancora senza risposta definitiva.
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Il meccanismo che scatta dal 1° gennaio 2024
Dal primo gennaio dell’anno scorso è operativa una disciplina che, francamente, ha colto di sorpresa molti operatori del settore. La nuova imposizione colpisce le plusvalenze derivanti dalla cessione di immobili su cui sono stati realizzati interventi agevolati con il Superbonus, purché la vendita avvenga entro dieci anni dalla conclusione dei lavori.
Il meccanismo – ed è questo l’aspetto che nella pratica professionale genera maggiori perplessità – prescinde completamente da variabili che fino a ieri sembravano determinanti. Non importa, ad esempio, quale percentuale di Superbonus sia stata utilizzata: che si tratti del 110% originario o delle aliquote ridotte (90%, 70%, 65%), l’effetto rimane invariato.
Analogamente, è irrilevante la modalità di fruizione dell’agevolazione. Sia che il contribuente abbia optato per la detrazione diretta in dichiarazione, sia che abbia scelto la cessione del credito o lo sconto in fattura, il risultato fiscale non cambia. Una scelta di semplificazione normativa che, tuttavia, non tiene conto delle diverse posizioni economiche e finanziarie che spesso motivano l’una o l’altra opzione.
Particolarmente significativo appare il fatto che la disciplina si applichi indipendentemente da chi abbia materialmente beneficiato del Superbonus. L’imposizione scatta anche quando gli interventi siano stati effettuati da soggetti diversi dal venditore – si pensi al conduttore, al comodatario o a familiari conviventi – purché rientranti tra gli aventi diritto secondo la disciplina dell’articolo 119 del D.L. n. 34/2020.
Le esclusioni che lasciano spazio a interpretazioni
Il legislatore ha previsto alcune esclusioni dall’ambito applicativo della nuova imposta, ma – come spesso accade – la formulazione normativa non brilla per chiarezza espositiva. Sono escluse dalla tassazione le cessioni di immobili acquisiti per successione, una previsione che nella casistica comune non genera particolari difficoltà interpretative.
Più articolata risulta invece l’esclusione per gli immobili “adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte dei dieci anni antecedenti alla cessione”. Una formulazione che, nella pratica, richiede verifiche puntuali sui periodi di effettivo utilizzo dell’immobile, con tutto quello che questo comporta in termini di documentazione e prova.
L’aspetto forse più interessante – e per certi versi rivoluzionario – riguarda il fatto che la durata del possesso dell’immobile diventa sostanzialmente irrilevante. Il parametro temporale che conta è esclusivamente quello decennale dalla conclusione dei lavori Superbonus, una scelta che rompe con la tradizionale logica delle plusvalenze immobiliari basata sul quinquennio di possesso.
Il calcolo della plusvalenza: tra vecchi criteri e nuove complicazioni
Quando la plusvalenza emerge e viene sottoposta a tassazione, si applica la disciplina ordinaria dei redditi diversi, con l’inclusione nel reddito complessivo IRPEF. È prevista, naturalmente, la possibilità di optare per l’imposta sostitutiva del 26%, versata dal notaio rogante al momento dell’atto di cessione.
Le modalità di calcolo seguono sostanzialmente i criteri tradizionali dell’articolo 68 del TUIR, con alcune specificità legate proprio agli interventi Superbonus. Il costo di acquisto o costruzione viene rivalutato ISTAT se l’operazione risale a oltre cinque anni prima della cessione, mentre per gli immobili ricevuti per donazione si considera il costo sostenuto dal donante, incrementato dell’imposta di donazione e di altri costi successivi.
La vera novità riguarda il trattamento dei costi degli interventi Superbonus effettuati con cessione del credito o sconto in fattura. Questi costi, che tradizionalmente sarebbero computabili per ridurre la plusvalenza, subiscono invece delle limitazioni temporali: non possono essere portati in deduzione per l’intero ammontare se i lavori sono conclusi da meno di cinque anni, mentre possono essere dedotti solo al 50% se i lavori sono conclusi da oltre cinque anni.
Rimangono invece sempre computabili i costi del Superbonus fruito come detrazione diretta e tutti i costi delle percentuali ridotte, anche con cessione o sconto. Una distinzione che, francamente, appare di difficile giustificazione dal punto di vista sistematico e che nella prassi genera non poche complicazioni operative.
Gli orientamenti dell’Agenzia delle Entrate: primi chiarimenti ma molte lacune
L’Amministrazione finanziaria ha iniziato a fornire i primi orientamenti interpretativi, ma il quadro rimane ancora largamente incompleto. La Circolare 13.06.2024, n. 13/E ha chiarito alcuni aspetti fondamentali, stabilendo che l’imposizione si applica solo alla prima cessione onerosa entro il decennio e non alle successive.
Un principio importante riguarda gli edifici condominiali: è sufficiente che gli interventi Superbonus abbiano interessato le parti comuni perché scatti l’imposizione sulla vendita delle singole unità immobiliari, anche se su queste non sono stati effettuati interventi specifici. Una interpretazione estensiva che amplifica notevolmente la portata applicativa della norma.
Interessante anche la precisazione sulla data di conclusione dei lavori, che deve essere comprovata dalle abilitazioni amministrative o dalle comunicazioni urbanistiche. Un criterio formale che, tuttavia, nella pratica può generare situazioni di incertezza, specialmente nei casi – tutt’altro che rari – di discordanza tra conclusione sostanziale e formale dei lavori.
Le successive risposte a interpello hanno affrontato casistiche specifiche ma non hanno risolto tutti i nodi interpretativi. La risposta n. 156 del 16.07.2024 ha chiarito che nelle vendite con riserva di proprietà il termine decennale decorre dal trasferimento effettivo, mentre la risposta n. 157 del 17.07.2024 ha precisato il trattamento degli immobili acquisiti per usucapione.
Le aree grigie che alimentano il contenzioso
Nonostante i primi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, permangono numerose questioni irrisolte che, nella pratica professionale, generano incertezze applicative significative. Una delle più delicate riguarda gli immobili acquisiti per successione sui quali l’erede abbia successivamente effettuato interventi Superbonus.
La formulazione letterale della norma sembrerebbe escludere dall’imposizione tutti gli immobili acquisiti per successione, indipendentemente dal momento in cui sono stati effettuati i lavori. Tuttavia, questa interpretazione – pur supportata dall’assenza di distinguo nella prassi amministrativa – potrebbe prestarsi ad utilizzi elusivi della disciplina.
Altrettanto complessa risulta la questione degli immobili ricevuti per donazione. In questo caso, la normativa non prevede alcuna esclusione esplicita, ma la lettura combinata delle disposizioni lascia aperti margini di incertezza, specialmente quando gli interventi Superbonus siano stati effettuati dal donante prima della donazione.
Come spesso accade nella casistica tributaria, il dato letterale della norma non sempre consente di raggiungere soluzioni univoche, e il richiamo ai principi antielusivi dell’articolo 10-bis della Legge n. 212/2000 o alle disposizioni sull’interposizione fittizia potrebbe aprire scenari di contenzioso non indifferenti.
La data di conclusione dei lavori: un elemento cruciale spesso sottovalutato
Un aspetto che merita particolare attenzione – e che nella pratica si rivela spesso problematico – riguarda l’individuazione della data di conclusione degli interventi. Non si tratta di una questione meramente tecnica: da questa data dipende infatti l’avvio del periodo decennale di “monitoraggio fiscale” delle cessioni.
La circolare dell’Agenzia delle Entrate fa riferimento alle abilitazioni amministrative o alle comunicazioni urbanistiche, ma la realtà operativa presenta una varietà di situazioni che non sempre si prestano a inquadramenti netti. Nel caso di interventi per i quali sia stato rilasciato un permesso di costruire o presentata una SCIA, la data di riferimento dovrebbe coincidere con la comunicazione di fine lavori.
Diverso potrebbe essere il ragionamento per gli interventi effettuati con CILAS (Comunicazione di inizio lavori asseverata per il Superbonus), una procedura introdotta specificamente per semplificare gli adempimenti burocratici degli interventi agevolati. In questo caso, non essendoci un obbligo specifico di comunicazione di fine lavori, la prassi operativa ha visto tecnici e professionisti adottare comportamenti non sempre uniformi.
Per gli interventi di efficientamento energetico, il riferimento temporale potrebbe essere la comunicazione all’ENEA da presentare entro novanta giorni dalla conclusione, mentre per quelli di riduzione del rischio sismico rilevano le attestazioni previste dal D.M. n. 58/2017. Una varietà di adempimenti che, nella pratica, può generare incertezze sulla data effettiva da assumere come riferimento.
Lavori non conclusi e clausole di salvaguardia: un dedalo normativo
Una delle questioni più delicate riguarda il trattamento delle cessioni effettuate prima della conclusione dei lavori. Il principio generale dovrebbe escludere l’imposizione in questi casi, ma la presenza della “clausola di salvaguardia” introdotta dal D.L. 29.12.2023, n. 212 complica notevolmente il quadro.
Questa disposizione stabilisce che le detrazioni Superbonus fruite tramite cessione o sconto su stati di avanzamento effettuati fino al 31.12.2023 non sono soggette a recupero in caso di mancato completamento dei lavori. Una norma di favor che, tuttavia, potrebbe creare situazioni in cui il Superbonus rimane acquisito nonostante l’incompletezza degli interventi.
In questi scenari, la questione se la mancata ultimazione impedisca comunque l’emersione di plusvalenze imponibili rimane aperta a interpretazioni divergenti. Da un lato, la logica sistematica suggerirebbe che senza conclusione dei lavori non possa iniziare il periodo decennale di monitoraggio; dall’altro, la presenza del beneficio fiscale acquisito potrebbe far propendere per un’interpretazione estensiva della disciplina impositiva.
Il caso del “rent to buy”: quando la forma prevale sulla sostanza
Tra le fattispecie non espressamente affrontate dalla prassi amministrativa, particolare interesse riveste il contratto di godimento in funzione della successiva alienazione, disciplinato dall’articolo 23 del D.L. 12.09.2014, n. 133. Si tratta di uno strumento contrattuale che prevede l’immediata concessione del godimento dell’immobile con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato.
L’effetto traslativo della proprietà si verifica solo al momento dell’eventuale esercizio dell’opzione di acquisto, che potrebbe avvenire anche oltre il decennio dalla conclusione dei lavori Superbonus. In questo caso, seguendo la logica adottata per le vendite con riserva di proprietà, l’imposizione dovrebbe essere esclusa se l’opzione viene esercitata quando ormai è decorso il periodo di “sorveglianza fiscale”.
Una soluzione che, pur coerente con l’orientamento amministrativo espresso nella risposta a interpello n. 156/2024, potrebbe prestarsi ad utilizzi strumentali della disciplina contrattuale per eludere l’imposizione sulle plusvalenze.