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ETS commerciale: come verificare la reale natura

4 Novembre, 2025

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La riforma del Terzo settore ha cambiato profondamente il modo di intendere gli Enti del Terzo Settore. Fino a poco tempo fa, un ente che svolgeva attività commerciali rischiava di perdere la propria identità. Oggi no. La normativa, e in particolare l’art. 79 del D.Lgs. 117/2017, consente una coesistenza che prima era impensabile: un ETS può operare commercialmente e mantenere comunque la qualifica di ente non commerciale, purché rispetti determinati equilibri di ricavi. La cosa interessante è che a partire dal 1° gennaio 2026, le nuove norme sul test di commercialità diventano pienamente operative, segnando un passaggio fondamentale nella gestione fiscale di migliaia di organizzazioni.

Il legislatore ha compreso una logica semplice ma rivoluzionaria: i proventi derivanti da attività commerciali possono costituire una fonte di finanziamento legittima per sostenere le finalità istituzionali. Non è sprezzo della missione nonprofit, bensì pragmatismo economico. Un ente può quindi ricavare denaro da attività economiche e destinarlo completamente agli scopi solidaristici, senza perdere i benefici fiscali. Ma come si determina concretamente se un ETS rimane “non commerciale” oppure diventa “commerciale”?

🕒 Cosa sapere in un minuto

  • Doppio test di commercialità: L’ETS mantiene la natura “non commerciale” solo se ogni attività e le entrate complessive rispettano i nuovi criteri 2026 (art. 79 D.Lgs. 117/2017).
  • Primo test: Singola attività rilevante: i ricavi non devono superare i costi di oltre il 6% (tolleranza massimo 3 anni).
  • Secondo test: L’ETS è “non commerciale” se le entrate istituzionali + liberali > entrate commerciali. Le sponsorizzazioni sono escluse dal confronto finale.
  • Effetti fiscali: Gli ETS non commerciali accedono a regimi agevolati, quelli “commerciali” sono tassati in via ordinaria.
  • Consiglio operativo: Serve una contabilità analitica separata per attività commerciali e non, utile anche per verifiche RUNTS.

Il primo test: nature delle singole attività esercitate

La risposta arriva attraverso un procedimento articolato in due fasi, il cosiddetto doppio test di commercialità. La prima fase consiste nell’esaminare singolarmente ciascuna attività svolta, verificandone la qualificazione economica. Secondo quando previsto dall’art. 79, comma 2 del decreto legislativo, le attività di interesse generale si reputano non commerciali quando vengono rese a titolo gratuito oppure dietro corrispettivi che non vanno oltre i costi effettivamente sostenuti. Il legislatore qui è piuttosto meticoloso: i costi da considerare comprendono non solo quelli direttamente imputabili all’attività, ma anche tutte le spese indirette e generali, compresi gli oneri finanziari e fiscali.

In pratica, se un ente gestisce una struttura socio-assistenziale e riscuote rette dagli utenti non superiori al totale dei costi (ammortamenti inclusi, contributi pubblici esclusi), l’attività mantiene carattere non commerciale. Ovviamente questa è la situazione “pura”. Nella realtà si presentano sfumature che il legislatore ha già previsto.

La tolleranza del 6 per cento nella determinazione commerciale

Qui interviene un elemento di flessibilità molto importante. L’art. 79, comma 2-bis stabilisce che le attività si considerano comunque non commerciali qualora i ricavi non superino i costi di oltre il 6%. È un margine di tolleranza deliberato, una sorta di cuscinetto. Se un ente ha costi pari a 100.000 euro, può incassare fino a 106.000 euro di ricavi e l’attività rimane ancora non commerciale. Ma c’è un paletto: questa “tolleranza” vale solo per tre periodi d’imposta consecutivi. Dopodiché, se i ricavi continuano a superare la soglia, l’attività acquista definitivamente natura commerciale.

Questa disposizione rispecchia un’intenzione chiara: permettere agli enti di gestire piccoli avanzi gestioni senza perdere la qualificazione. Non è una scappatoia, è la riconoscenza che nell’operatività reale i conti non quadrano mai con precisione chirurgica.

Il secondo test: prevalenza delle entrate complessive dell’ente

Una volta calificata ogni singola attività (commerciale oppure no), occorre passare al secondo livello di analisi. Qui si considerano le entrate complessive dell’ente, indipendentemente da cosa dice lo statuto. L’art. 79, comma 5 pone il criterio decisivo: un ETS si qualifica come non commerciale se svolge in via esclusiva o prevalente le attività di interesse generale secondo i parametri appena descritti. Tradotto in parole semplici: se le entrate istituzionali e liberali superano nel medesimo periodo d’imposta quelle derivanti da attività commerciali (con modalità imprenditoriale), allora l’ente conserva la natura non commerciale globale.

Il punto cruciale? Le sponsorizzazioni qui non rientrano. L’articolo prevede espressamente che nell’effettuare questo secondo confronto, vanno escluse le entrate da sponsorizzazione, salvo che non rispettino i criteri stabiliti da apposito decreto. Questa esclusione non è casuale: in questo modo il legislatore evita che una sponsorizzazione particolarmente “pesante” stravolga la natura dell’ente.

Un esempio concreto: quando il doppio test dichiara l’ente commerciale

Consideriamo un’organizzazione che gestisce una struttura residenziale. L’ente incassa rette dagli ospiti, riceve donazioni e ha sponsor che la supportano. Nel primo esercizio, gli afflussi complessivi sono così distribuiti: 115.000 euro dalle rette agli ospiti, 90.000 euro da donazioni, 8.000 euro da sponsorizzazioni. I costi operativi ammontano a 105.000 euro.

Al primo test, l’attività risulta commerciale perché i ricavi (115.000) superano i costi (105.000) di oltre il 6% (la soglia sarebbe 111.300). Passiamo al secondo. Qui consideriamo i proventi commerciali: 115.000 euro. Le entrate non commerciali: 90.000 euro. Non calcoliamo le sponsorizzazioni. Poiché 115.000 > 90.000, l’ente assume complessivamente natura commerciale. Questa qualificazione ha riflessi fiscali immediati: l’organizzazione sarà assoggettata al regime ordinario di tassazione.

Una situazione diversa: la prevalenza delle entrate non commerciali

Immaginiamo ora una variante dello stesso ente. Identica struttura, medesime attività, identici costi di gestione (sempre 105.000). Cambiano però gli incassi: le rette calano a 110.000 euro, mentre le donazioni salgono a 125.000. Le sponsorizzazioni rimangono 8.000.

Primo test: ancora commerciale, poiché 110.000 supera 105.000 di oltre il 6%. Ma al secondo test il quadro si ribalta. Proventi commerciali: 110.000. Entrate istituzionali: 125.000. Stavolta l’ente rimane non commerciale perché le entrate non commerciali sono prevalenti. Le sponsorizzazioni, ribadisceamolo, non contano nel confronto. Se contassero, l’ente diventerebbe commerciale (118.000 contro 125.000), ma la legge ha scelto diversamente.

Le sponsorizzazioni e il loro ruolo “nascosto” nel doppio test

Un aspetto che spesso genera confusione riguarda proprio il trattamento delle sponsorizzazioni. L’art. 79 le esclude dalla seconda fase del test, ma non dalla prima. Se una sponsorizzazione venisse qualificata in maniera non conforme ai criteri di cui al decreto ministeriale, rientrerebbe tra le attività commerciali e quindi andrebbe calcolata. Tuttavia, salvo casi particolari, le sponsorizzazioni normalmente rispecchiando i parametri normativi e quindi non incidono sul confronto finale. Questa scelta normativa privilegia la solidità dell’ente rispetto alle variabilità di contributi eventuali e occasionali.

Prospetto sintetico del doppio test di commercialità

La seguente tabella illustra in forma schematica il meccanismo di qualificazione attraverso i due test successivi:

Fase del test Soggetto esaminato Criterio di valutazione Esito: non commerciale Esito: commerciale
Primo test Singola attività di interesse generale Rapporto tra ricavi e costi sostenuti Ricavi ≤ costi oppure ricavi non superano costi di oltre il 6% (max 3 anni consecutivi) Ricavi superano costi di oltre il 6% oltre il periodo di tolleranza
Secondo test Entrate complessive dell’ente Prevalenza tra entrate commerciali e istituzionali Entrate non commerciali e liberali > entrate da attività commerciale Entrate da attività commerciale > entrate non commerciali e liberali
Effetti fiscali Qualificazione globale dell’ente Accesso a regimi agevolati Regime forfettario art. 80 CTS; esenzione IRES su ricavi istituzionali Regime ordinario TUIR; tassazione IRES al 24% su tutti i ricavi

Nota metodologica: Nel secondo test le sponsorizzazioni conformi ai criteri normativi rimangono escluse dal confronto delle entrate, operando quale elemento “neutro” ai fini della qualificazione complessiva dell’ente.

La prassi amministrativa e le criticità ricorrenti

Nella pratica professionale si osserva che molti enti commettono l’errore di considerare tutte le sponsorizzazioni alla stregua di entrate commerciali. Non è così. Occorre invece verificare se quella specifica sponsorizzazione rispetta i criteri stabiliti dal decreto e se quindi beneficia dell’esclusione. Inoltre, sorge frequentemente la questione della contabilità analitica: per discriminare correttamente tra attività commerciali e non commerciali, l’ente deve dotarsi di sistemi di rilevazione che separino chiaramente i costi e i ricavi per ciascuna attività. Non è uno sforzo burocratico fine a sé stesso, ma la base necessaria per individuare la corretta qualificazione fiscale.

La giurisprudenza ha talvolta interpretato in modo più restrittivo la possibilità di qualificazione “non commerciale”, enfatizzando l’importanza della separazione contabile. Dunque, è opportuno che ogni ETS, soprattutto quelli di recente iscrizione al RUNTS, provveda a implementare una rilevazione dei dati quanto più possibile affidabile e dettagliata, in grado di reggere eventuali verifiche amministrative.

Impatti sulla gestione fiscale e prospettive

La qualificazione come ente commerciale o meno non è una mera formalità. Comporta conseguenze rilevanti sulla determinazione del reddito imponibile, sulle esenzioni possibili, sui regimi agevolati applicabili. Un ETS non commerciale può accedere al regime forfettario previsto dall’art. 80, applicando coefficienti di redditività ridotti (dal 7% al 17% per servizi, dal 5% al 14% per altre attività) limitatamente ai ricavi da attività commerciali non prevalenti. Un ETS commerciale, invece, è soggetto al regime ordinario. Inoltre, a partire dal 2026 gli ETS dovranno mappare completamente le proprie attività entro il 31 dicembre per verificare la corretta applicazione del test.

Le organizzazioni dovrebbero pertanto intraprendere subito un’analisi interna, magari con l’ausilio di consulenti fiscali, per comprendere quale sia la propria posizione e se eventuali aggiustamenti gestionali o contabili risultino opportuni. La riforma, nel complesso, persegue l’obiettivo di favorire la sostenibilità degli enti e assicurare equità rispetto agli operatori for profit. Farlo consapevolmente, senza sorprese al momento della dichiarazione dei redditi, rappresenta la scelta più saggia.

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