L’Italia si trova di nuovo sul banco degli imputati. Stavolta è la Corte europea dei diritti dell’uomo a puntare il dito contro un sistema di verifiche tributarie che, secondo i giudici di Strasburgo, lascia i contribuenti troppo esposti alla discrezionalità del Fisco. La sentenza depositata l’11 dicembre 2025 rappresenta l’ennesimo capitolo di una vicenda che si trascina da anni e che mette in discussione la legittimità stessa degli accessi ispettivi così come sono disciplinati nel nostro ordinamento.
Il caso al centro dell’attenzione riguarda otto società italiane, tra cui figura come capofila la Agrisud 2014 S.r.l. semplificata, tutte sottoposte tra il 2018 e il 2022 a verifiche da parte di Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza. L’elemento comune? Le autorizzazioni agli accessi erano, nella prassi, prive di una motivazione sostanziale capace di giustificare l’ingerenza nei locali aziendali. Questo il nodo che ha portato alla violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea, quello che tutela il diritto al rispetto della vita privata e del domicilio.
Il quadro normativo italiano sotto la lente
Secondo quanto osservato dalla Corte, gli articoli 52 del D.P.R. 633 del 1972 e 33 del D.P.R. 600 del 1973 attribuiscono alle autorità fiscali un margine di manovra eccessivamente ampio. Parliamo di norme che permettono l’accesso ai locali commerciali e l’acquisizione di libri contabili, registri e documenti fiscali senza che vi siano limitazioni chiare né criteri predefiniti sull’ampiezza dell’ispezione stessa. Un potere che nella prassi amministrativa si traduce spesso in controlli non circoscritti, dove l’autorizzazione diventa poco più di un adempimento formale.
La critica della Corte non si ferma ai profili sostanziali ma investe anche la mancanza di adeguati rimedi giurisdizionali. Nel sistema italiano il contribuente, quando si vede notificare un accesso, non dispone di strumenti efficaci per contestarne immediatamente la legittimità. Deve aspettare che l’ispezione si concluda, che venga emesso l’avviso di accertamento e solo allora può impugnarlo davanti alle Commissioni tributarie. Una tutela differita che, secondo Strasburgo, non offre garanzie sufficienti contro eventuali abusi.
Discrezionalità senza freni e assenza di controlli preventivi
La sentenza Agrisud mette in luce un problema di fondo: nell’ordinamento italiano manca una verifica preventiva che accerti, in modo indipendente, la sussistenza dei presupposti per l’accesso. Le autorizzazioni rilasciate dai capi dell’ufficio o dai procuratori della Repubblica non sono accompagnate da una valutazione critica delle ragioni che giustificano l’intrusione. Anzi, stando alla giurisprudenza consolidata della Cassazione, l’autorizzazione rappresenta un semplice controllo gerarchico, non un vaglio sulla proporzionalità e sulla necessità dell’ispezione.
Questo aspetto ha rappresentato uno dei passaggi più problematici nel ragionamento dei giudici europei. Si tratta, infatti, di capire se l’ingerenza statale rispetti il test di legalità richiesto dall’articolo 8 della Convenzione. Non basta che esista una norma scritta: occorre che quella norma sia accessibile e prevedibile, che indichi con sufficiente chiarezza quando e come le autorità possono agire. Nel caso italiano il punto debole risiede proprio in questa genericità.
Una storia che si ripete: il precedente Italgomme
Non è la prima volta che l’Italia viene censurata per le stesse ragioni. Il 6 febbraio 2025 la Corte aveva già condannato Roma nel caso Italgomme Pneumatici Srl e altri, rilevando le medesime lacune procedurali. A distanza di pochi mesi arriva la decisione su Agrisud, che in sostanza conferma l’orientamento già espresso e amplia il perimetro delle censure. Il sistema delle ispezioni tributarie viene quindi ritenuto incompatibile con i principi della Convenzione non solo in singoli episodi ma nella sua struttura complessiva.
Le vicende analizzate da Strasburgo hanno riguardato situazioni diverse: accessi per verifiche IVA, controlli su imposte dirette, acquisizioni di documenti e, in alcuni casi, anche sequestri di materiale contabile. Eppure il filo conduttore resta sempre lo stesso: le autorizzazioni non indicavano in modo esplicito le ragioni specifiche che legittimavano l’intrusione, né definivano l’oggetto preciso dell’indagine. Una situazione che, nella lettura della Corte, espone i contribuenti a un rischio di arbitrarietà non tollerabile in uno Stato di diritto.
La riforma del 2 agosto: un primo passo, ma sarà sufficiente?
Nel frattempo il legislatore italiano ha tentato di correre ai ripari. Con l’articolo 13-bis del decreto legge 84 del 2025, convertito con legge 108 del 2025 ed entrato in vigore il 2 agosto scorso, è stato introdotto l’obbligo per gli organi di controllo di motivare in modo espresso e adeguato le circostanze che giustificano l’accesso. La modifica interessa l’articolo 12 dello Statuto del contribuente e si applica tanto all’atto autorizzativo quanto al processo verbale delle operazioni.
Un intervento che risponde, almeno sulla carta, alle indicazioni provenienti da Strasburgo. Resta però da capire se questa correzione normativa sarà sufficiente a superare le criticità evidenziate dalla Corte. La sentenza Agrisud infatti non si limita a richiedere una motivazione formale ma pretende un sistema di garanzie che includa anche la possibilità di un controllo giurisdizionale tempestivo. Sul fronte dei rimedi effettivi il nostro ordinamento presenta ancora zone d’ombra.
Proporzionalità dell’ingerenza nei diritti del contribuente
Un altro punto sollevato dalla Corte riguarda la proporzionalità delle misure adottate. Secondo i giudici europei le verifiche fiscali italiane possono tradursi nell’acquisizione di una quantità ingente di materiale, senza che vi siano limiti chiari sulla documentazione effettivamente rilevante. Accade così che l’ispezione si estenda ben oltre quanto necessario per accertare specifici obblighi tributari, finendo per coinvolgere dati e informazioni non strettamente connessi all’obiettivo dichiarato.
Questo profilo assume particolare rilievo nella prassi amministrativa. Una volta ottenuta l’autorizzazione all’accesso, i verificatori possono acquisire tutto ciò che ritengono utile, anche se non direttamente collegato alle violazioni sospettate. La giurisprudenza nazionale ha più volte legittimato questa ampiezza di poteri, sostenendo che l’accertamento fiscale non può essere imbrigliato in schemi rigidi. Ma la Corte europea vede le cose diversamente e chiede che vengano introdotte salvaguardie per evitare l’utilizzo indiscriminato di documenti estranei allo scopo dell’indagine.
Conseguenze sul piano pratico per professionisti e imprese
Le ricadute pratiche della sentenza potrebbero essere significative, soprattutto per chi si trova attualmente coinvolto in contenziosi tributari originati da ispezioni contestate. La pronuncia dei giudici di Strasburgo offre infatti argomenti per sollevare eccezioni sull’utilizzabilità delle prove raccolte nel corso di accessi privi di adeguata motivazione. Certo, occorrerà vedere come le Commissioni tributarie e la Cassazione interpreteranno questi principi, ma la direzione appare segnata.
Per gli operatori economici e i professionisti del settore è fondamentale prestare attenzione alla documentazione che accompagna ogni accesso ispettivo. Verificare che l’autorizzazione contenga una motivazione specifica, non limitata a formule di stile, diventa un primo elemento di tutela. In presenza di carenze su questo fronte sarà possibile invocare i principi affermati dalla Corte europea, magari eccependo l’inutilizzabilità delle acquisizioni documentali effettuate in modo illegittimo.
Il coordinamento tra normativa interna e giurisprudenza europea
Il tema di fondo resta il rapporto tra diritto nazionale e vincoli derivanti dalla Convenzione europea. L’articolo 117 della Costituzione impone al legislatore italiano di rispettare gli obblighi internazionali, tra cui quelli scaturenti dalla Cedu. Le sentenze della Corte di Strasburgo sono vincolanti per lo Stato italiano e devono essere recepite anche attraverso modifiche normative o prassi amministrative. Nel caso delle verifiche fiscali questo processo sembra avviato ma non ancora completato.
La giurisprudenza della Cassazione dovrà fare i conti con questi orientamenti. In passato la Suprema Corte aveva sostenuto che l’autorizzazione agli accessi non richiedesse una motivazione puntuale, configurandosi come mero atto endoprocedimentale. Oggi questo approccio risulta difficilmente sostenibile alla luce dei principi europei. L’ordinanza interlocutoria n. 11910 del 2025, con cui la Cassazione ha richiesto osservazioni sulla rilevanza della sentenza Italgomme, rappresenta un primo segnale di apertura verso una rilettura garantista della normativa interna.
Quali prospettive per il sistema dei controlli
La strada da percorrere appare ancora lunga. L’introduzione dell’obbligo motivazionale rappresenta un passo avanti ma non esaurisce le richieste formulate dalla Corte europea. Servirebbe una revisione più organica del sistema, che preveda forme di controllo giurisdizionale preventivo sulle autorizzazioni agli accessi, almeno nei casi più invasivi. Oppure meccanismi che consentano al contribuente di ottenere una pronuncia immediata sulla legittimità dell’ispezione, senza dover attendere l’emissione dell’avviso di accertamento.
Alcuni ordinamenti europei hanno già adottato soluzioni in tal senso. In Germania, ad esempio, le perquisizioni fiscali richiedono un’autorizzazione giudiziaria preventiva, salvo casi eccezionali di urgenza. In Francia esiste un giudice delle libertà che può essere chiamato a valutare la legittimità delle operazioni di controllo. L’Italia potrebbe trarre spunto da questi modelli, introducendo forme di tutela più incisive che anticipino il momento in cui il contribuente può far valere le proprie ragioni.
La posizione dell’amministrazione finanziaria
Dal canto suo l’Agenzia delle Entrate ha sempre sostenuto la legittimità degli accessi effettuati sulla base della normativa vigente. Secondo l’amministrazione i poteri ispettivi rappresentano strumenti indispensabili per contrastare l’evasione e garantire il corretto funzionamento del sistema tributario. La posizione di Roma nelle cause davanti alla Corte europea ha sempre puntato su questo aspetto: l’efficacia dell’azione accertatrice non può essere compromessa da vincoli procedurali troppo stringenti.
Tuttavia la Corte ha respinto questi argomenti, ritenendo che l’esigenza di combattere l’evasione non giustifichi una compressione sproporzionata dei diritti fondamentali. Il bilanciamento tra interessi pubblici e tutela dei contribuenti deve avvenire nel rispetto della legalità sostanziale, non solo formale. E questo richiede che le norme conferiscano poteri definiti, non aperti a interpretazioni discrezionali senza limiti precisi.
Una sentenza destinata a fare giurisprudenza
La decisione su Agrisud si colloca in un filone giurisprudenziale ormai consolidato della Corte europea, che da tempo sottolinea l’importanza di garanzie procedurali nelle attività ispettive degli Stati. Non riguarda solo il settore fiscale: i principi affermati potrebbero estendersi ad altri ambiti amministrativi, come i controlli antiriciclaggio, le verifiche della Guardia del Lavoro o le ispezioni condotte dall’Antitrust. Ogni volta che un’autorità pubblica entra in locali privati o acquisisce documentazione riservata deve farlo nel rispetto di criteri di proporzionalità e trasparenza.
Per il momento l’Italia dovrà versare ai ricorrenti un risarcimento economico per il danno subito, ma al di là dell’aspetto patrimoniale resta l’obbligo di adeguare l’ordinamento interno ai principi della Convenzione. Un compito che spetta al legislatore ma anche alla giurisprudenza, chiamata a interpretare le norme esistenti in modo conforme ai vincoli internazionali. Il percorso di adeguamento richiederà tempo e probabilmente altre sentenze, ma la direzione sembra ormai tracciata.



