L’Agenzia delle Entrate ha avviato un’operazione di verifica capillare nei confronti dei content creator (influencer). Questionari dettagliati stanno arrivando a chi lavora sui social, con richieste che riguardano l’anno d’imposta 2020 e, in taluni casi, anche le annualità successive. L’obiettivo? Scovare compensi che potrebbero essere sfuggiti al radar dell’amministrazione finanziaria, sia sotto forma di pagamenti tradizionali non dichiarati che attraverso canali meno convenzionali: beni in natura, conti bancari all’estero, wallet per criptovalute.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- L’Agenzia delle Entrate invia questionari dettagliati agli influencer per ricostruire i compensi, anche del 2020 e anni successivi.
- Si devono dichiarare tutte le piattaforme usate, i rapporti contrattuali e ogni compenso, anche beni e servizi ricevuti.
- Va indicato il valore normale dei compensi in natura e fornite le movimentazioni di conti esteri e wallet per criptovalute.
- Omettere la risposta o rispondere in modo incompleto comporta sanzioni da 250 a 2.000 euro e possibili accertamenti induttivi.
- Dal 2025 attività di influencer con ATECO 73.11.03 e obblighi contributivi anche verso Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo.
- I compensi da social network vanno sempre dichiarati e documentati; l’omessa dichiarazione è facilmente verificabile grazie alla DAC7.
- Criticità: corretta qualificazione fiscale dei redditi, deducibilità dei costi e gestione degli omaggi spontanei.
La strategia di verifica dell’amministrazione
Quello che emerge dalle comunicazioni inviate è un quadro piuttosto chiaro della strategia adottata dall’amministrazione. Non si tratta, almeno per il momento, di veri e propri accertamenti. La fase è ancora quella conoscitiva, ma con un grado di dettaglio che lascia intendere come il Fisco intenda ricostruire con precisione il perimetro economico dell’attività svolta dai digital creator.
I destinatari dei questionari hanno quindici giorni di tempo per rispondere. Un termine che, va detto, non lascia molto margine. E chi pensa di poter ignorare la richiesta farebbe bene a ripensarci: l’omessa risposta comporta sanzioni pecuniarie che vanno da 250 a 2.000 euro. Ma c’è di più. Secondo quanto previsto dalla normativa vigente, il mancato riscontro può legittimare l’amministrazione a procedere con la ricostruzione induttiva del reddito. Questo significa che l’ufficio potrebbe determinare i compensi basandosi su presunzioni, dati indiretti, analisi dei flussi finanziari. Una prospettiva che, nella prassi applicativa, si rivela quasi sempre sfavorevole per il contribuente.
Cosa chiede il questionario ai content creator
Entrando nel merito delle richieste, il livello di approfondimento è notevole. Viene chiesto di indicare ogni piattaforma social utilizzata per l’attività professionale. Non basta il nome: occorre specificare il profilo, la data di avvio dell’attività su ciascun canale, il tipo di contenuti pubblicati.
Per ogni fonte di reddito va descritta la natura dei rapporti contrattuali. Se c’è un contratto scritto con un brand, con un’agenzia o con altri soggetti intermediari, ne va allegata copia. I compensi devono essere indicati in modo analitico, distinguendo tra quelli percepiti come corrispettivo per prestazioni pubblicitarie, quelli derivanti da diritti d’autore, quelli per partecipazioni ad eventi dal vivo.
Un aspetto che viene particolarmente enfatizzato riguarda il quadro RL25 del modello dichiarativo. Questo quadro, come noto, è quello in cui si dichiarano i compensi per diritti d’autore. Se un influencer l’ha compilato, deve ora specificare a quali attività si riferiscono tali compensi e se vi siano stati rapporti con terzi per la creazione di contenuti o per prestazioni di carattere artistico.
Compensi in natura sotto la lente del Fisco
Nella prassi professionale, si osserva con una certa frequenza che i content creator ricevano compensi non in denaro ma in beni o servizi. Vacanze pagate, pernottamenti gratuiti in hotel, prodotti di vario genere (abbigliamento, cosmetici, dispositivi tecnologici), buoni spesa. Tutte forme di retribuzione che, dal punto di vista fiscale, costituiscono reddito imponibile a tutti gli effetti.
Il questionario richiede espressamente di indicare anche queste tipologie di compenso. E qui si apre una questione delicata: come si quantifica il valore di un soggiorno gratuito in una struttura di lusso? O quello di un capo di abbigliamento fornito da un brand? Secondo quanto stabilito dalla normativa tributaria, occorre fare riferimento al valore normale del bene o del servizio ricevuto. Ma nella pratica, spesso, queste valutazioni non vengono effettuate con la dovuta precisione, quando non vengono proprio omesse.
Si pensi, a titolo esemplificativo, a un influencer del settore travel che riceve un soggiorno di una settimana in un resort alle Maldive, del valore commerciale di 8.000 euro, in cambio della pubblicazione di contenuti promozionali. Tale importo dovrebbe confluire nella dichiarazione dei redditi al pari di un compenso in denaro. Ma quanti lo fanno realmente?
L’analisi dei movimenti bancari e dei wallet digitali
L’indagine dell’amministrazione non si ferma ai conti correnti italiani. Vengono richiesti anche i dati relativi a carte prepagate, conti correnti detenuti all’estero, e – aspetto particolarmente significativo – i wallet digitali utilizzati per operazioni in criptovalute.
Per questi ultimi va fornita non solo l’indicazione del tipo di wallet (se custodial o non-custodial) ma anche la stampa completa delle movimentazioni. L’obiettivo è intercettare eventuali flussi di compensi che potrebbero essere transitati attraverso canali difficilmente tracciabili con i tradizionali strumenti di controllo.
Va considerato che, con l’entrata in vigore della normativa DAC7 (Direttiva UE 2021/514, recepita in Italia), le piattaforme digitali sono tenute a comunicare all’amministrazione finanziaria i dati relativi ai venditori e ai fornitori di servizi che operano attraverso i loro canali. Questo significa che, già dal 2024, l’Agenzia delle Entrate può disporre di informazioni dirette sui compensi erogati da YouTube, Instagram (attraverso Meta), TikTok, e altre piattaforme. Diventa quindi sempre più complesso, se non impossibile, occultare tali proventi.
I rapporti societari e il rischio di “schermature”
Un altro aspetto oggetto di attenzione è quello dei rapporti tra l’influencer e eventuali società di cui risulti socio, amministratore o dipendente. La richiesta ha una finalità ben precisa: verificare che non vi siano operazioni elusive realizzate mediante l’interposizione di soggetti giuridici.
Nella casistica comune si possono riscontrare situazioni in cui un content creator, che opera in regime forfettario, si avvicina alla soglia massima di ricavi consentita (85.000 euro annui). Per evitare di superarla e perdere il beneficio fiscale, potrebbe essere tentato di “far fatturare” parte delle prestazioni a una società appositamente costituita. Oppure, in alternativa, potrebbe conferire redditi a una società di cui detiene il controllo, per beneficiare di aliquote diverse o per differire la tassazione.
Si tratta di operazioni che, se non strutturate correttamente e se prive di una valida ragione economica, possono configurare condotte elusive ai sensi dell’art. 10-bis della L. 212/2000 (Statuto del contribuente). L’amministrazione, in questi casi, può disapplicare il regime agevolato e recuperare le imposte dovute, applicando le relative sanzioni.
Il nuovo codice ATECO e le implicazioni previdenziali
Dal 1° gennaio 2025 è stato istituito il codice ATECO 73.11.03, specifico per l’attività di influencer marketing. Si tratta di un passaggio formale ma non privo di conseguenze. L’adozione di un codice dedicato permette all’amministrazione di identificare con maggiore precisione gli operatori del settore e di monitorarne l’andamento economico.
Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, di natura previdenziale. L’INPS, con la circolare n. 44 del 19 febbraio 2025, ha chiarito che, in determinate circostanze, l’attività degli influencer può essere ricondotta a quella dei lavoratori dello spettacolo. Quando il content creator svolge prestazioni che hanno carattere artistico o interpretativo – si pensi alla realizzazione di video promozionali in cui recita, posa come modello, o comunque assume un ruolo assimilabile a quello di un attore – scatta l’obbligo di iscrizione al Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo (FPLS, ex Enpals).
Questo comporta un doppio regime contributivo: da un lato la Gestione separata INPS (o la Gestione artigiani e commercianti, se l’attività è svolta in forma di impresa), dall’altro il FPLS per le prestazioni di carattere artistico. Una complessità gestionale non indifferente, che richiede l’assistenza di professionisti qualificati.
Come vengono calcolati i compensi sulle piattaforme
Il questionario si spinge fino a chiedere come vengono quantificati e incassati i compensi che derivano direttamente dalle piattaforme social. YouTube, ad esempio, remunera i creator in base a visualizzazioni, click sugli annunci pubblicitari, abbonamenti al canale. TikTok utilizza un sistema di Creator Fund. Instagram prevede compensi per i Reels e per i contenuti brandizzati.
Questi meccanismi sono spesso regolati da algoritmi proprietari, talvolta opachi anche per gli stessi influencer. Ma dal punto di vista fiscale poco importa: il compenso, comunque determinato, costituisce reddito imponibile. E deve essere dichiarato.
Si rende necessario, quindi, tenere una contabilità accurata di tutti i flussi in entrata, conservando la documentazione che attesti le modalità di calcolo e di pagamento. Le piattaforme, generalmente, forniscono report periodici. Questi documenti andrebbero archiviati con cura, perché potrebbero essere richiesti in sede di verifica.
Criticità ricorrenti e aspetti spesso trascurati
Dall’esperienza applicativa emergono alcune criticità che si ripetono con una certa regolarità. La prima riguarda la corretta qualificazione dei redditi. I compensi degli influencer possono essere inquadrati come redditi di lavoro autonomo (se derivanti da attività abituale), come redditi d’impresa (se l’attività è organizzata in forma di impresa), o come redditi diversi (se occasionali). Ciascuna qualificazione ha conseguenze diverse in termini di imposte, contributi previdenziali, deduzioni ammesse.
La seconda criticità riguarda i costi deducibili. Quali spese può dedurre un influencer? L’attrezzatura fotografica e video, certamente. I software di editing, il canone per i servizi di hosting o per le piattaforme di gestione dei social. Ma che dire dell’abbigliamento? O dei viaggi? Qui la giurisprudenza tributaria ha fornito indicazioni contrastanti. Una recente sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia (sent. n. 468/2024) ha riconosciuto, in un caso specifico, la parziale deducibilità dei costi per abiti e accessori acquistati da una fashion influencer. Ma si tratta di un orientamento ancora isolato, non consolidato.
Infine, la questione degli omaggi ricevuti. Se un brand invia spontaneamente un prodotto, senza che vi sia un accordo contrattuale o una richiesta di pubblicazione di contenuti promozionali, si configura reddito imponibile? La risposta, teoricamente, dovrebbe essere negativa. Ma nella prassi l’amministrazione tende a essere prudente, soprattutto quando il valore dei beni ricevuti è elevato o quando l’omaggio è seguito, anche a distanza di tempo, da una pubblicazione che ne menziona il marchio.
Le conseguenze della mancata collaborazione
Occorre ribadire che il questionario ha, almeno in questa fase, natura conoscitiva. Non si tratta di un atto di accertamento. Ma questo non significa che possa essere ignorato. La mancata risposta, o la fornitura di dati incompleti o inesatti, oltre a comportare sanzioni amministrative, può innescare una verifica fiscale vera e propria.
In questo scenario, l’amministrazione dispone di ampi poteri istruttori. Può richiedere documentazione alle banche, alle piattaforme digitali, ai committenti. Può accedere ai locali dove si svolge l’attività. Può acquisire dati da fonti pubbliche e private. E può, come già accennato, procedere alla determinazione induttiva del reddito, qualora ritenga inattendibile la contabilità o la documentazione fornita.
La ricostruzione induttiva, disciplinata dall’art. 39 del D.P.R. 600/1973, consente al Fisco di quantificare il reddito sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Si tratta di uno strumento che, nella pratica, viene utilizzato quando il contribuente non è in grado di dimostrare l’origine e la destinazione dei movimenti finanziari.
La normalizzazione della creator economy
L’operazione avviata dall’Agenzia delle Entrate si inserisce in un più ampio processo di regolamentazione del settore. Per anni l’attività degli influencer si è mossa in una zona grigia, caratterizzata da scarsa tracciabilità e assenza di regole specifiche. Ora il quadro sta cambiando. L’introduzione del codice ATECO dedicato, le precisazioni dell’INPS in materia previdenziale, l’obbligo per le piattaforme di comunicare i dati all’amministrazione finanziaria: sono tutti tasselli di una strategia volta a far emergere il sommerso e a garantire parità di trattamento con gli altri lavoratori autonomi e con le imprese.
Va anche considerato che il giro d’affari del settore è tutt’altro che marginale. Secondo le stime, nel 2024 l’influencer marketing in Italia ha generato un volume d’affari di circa 370 milioni di euro, con proiezioni in crescita per il 2025 (385 milioni). Si tratta di cifre rilevanti, che giustificano l’attenzione dell’amministrazione.