Il Ministero dell’Economia ha chiuso definitivamente la porta a un eventuale rinvio del secondo acconto per le partite IVA nella prossima annualità. A dichiararlo è stato Giancarlo Giorgetti davanti ai banchi della Camera dei deputati, il 22 ottobre scorso, in risposta a un’interrogazione parlamentare. La posizione è stata cristallina: le risorse non ci sono. O meglio – sarebbe più preciso dire – lo Stato ha priorità diverse rispetto a questo genere di agevolazioni. Non c’è margine nelle casse pubbliche per tornare sulla questione, almeno per il momento.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- Niente proroga per il 2026: Il Ministro Giorgetti ha confermato che non ci sarà rinvio del secondo acconto per le partite IVA nella prossima annualità.
- La misura sperimentale termina: Nel biennio 2023-2024, circa 276.277 contribuenti (con ricavi sotto 170.000 €) hanno beneficiato del rinvio al 16 gennaio con rateizzazione in 5 mesi.
- Scadenza 30 novembre 2025: Le partite IVA dovranno tornare al versamento tradizionale entro fine novembre, senza possibilità di differimento.
- Motivo del no: Mancano le risorse di bilancio e lo Stato ha bisogno di incassare per gli equilibri della Legge di Bilancio 2026.
- Uno spiraglio (minimo): Giorgetti ha lasciato aperta la possibilità di riconsiderare in extremis solo se emergessero margini di manovra prima della scadenza.
- Il secondo acconto 2025: Beneficia ancora della proroga al 16 gennaio 2026 con rateizzazione fino a maggio.
Un esperimento che ha funzionato, ma il tempo scade
La misura sperimentale varata due anni fa aveva ottenuto riscontri tutt’altro che secondari. Nel 2023 e nel 2024, circa 276 mila attività economiche (precisamente 276.277, secondo i numeri forniti dal Ministero) hanno potuto differire il versamento del secondo acconto delle imposte sul reddito. Il dato si divide tra 83.233 contribuenti titolari di Irpef, 193.044 fra coloro che operano in regime forfetario o minimo.
Non tutti, ovviamente. Il meccanismo era riservato a chi dichiarava fatturati o compensi lordi inferiori a 170 mila euro annui. Una sorta di protezione per le piccole partite IVA, quelle che più risentiamo delle pressioni di cassa.
Il beneficio di questa sperimentazione è stato duplice. Da un lato, rinviava la scadenza canonica del 30 novembre. Dall’altro, permetteva di spalmare il pagamento in cinque tranches mensili, da gennaio a maggio dell’anno successivo. Non una cancellazione, sia chiaro: solo uno slittamento e una rateizzazione della medesima obbligazione.
Come funzionava il meccanismo, e perché ha interessato così tanti
Nella pratica operativa, molti piccoli imprenditori e professionisti hanno visto con sollievo questa apertura. Avevano più tempo per organizzarsi finanziariamente. Non erano costretti a versare il grosso della cifra il 30 novembre, quando spesso il cash flow delle imprese di servizi o del commercio arranca.
Le variazioni dell’importo dovuto si riferivano alle imposte vere e proprie. È bene precisare: i contributi previdenziali, assistenziali e i premi Inail rimanevano fuori da questo rinvio. Solo e soltanto il secondo acconto dell’imposta sul reddito poteva beneficiare del differimento.
Nel 2024, però, le adesioni sono calate rispetto all’anno precedente. I numeri non sono giganteschi, ma il trend negativo c’era. Le ragioni sono variegate: tempistiche di adozione delle nuove norme, incertezza sulla continuità della misura, forse anche poco coordinamento nelle comunicazioni alle imprese.
Il freno di Giorgetti e le ragioni di bilancio
Quando Alberto Gusmeroli, deputato della Lega e padrino della proposta originaria, ha sollevato la questione in aula, si aspettava forse una risposta un po’ meno netta. Invece il responsabile dell’Economia ha preferito il linguaggio diretto: al momento non vi sono spazi di manovra. Punto.
Il motivo è strettamente legato alle necessità di gettito. Lo Stato ha bisogno di incassare. Non è che dimentichi le tasse, le rimangia semplicemente: quando sposti il versamento da novembre a gennaio, il tesoriere aspetta più mesi. Sono soldi che nel bilancio 2025 vanno conteggiati altrimenti.
La Legge di Bilancio 2026, nei disegni attuali, non prevede alcun inserimento di questa norma rinnovata. Semplicemente è rimasta fuori dal perimetro degli interventi che verranno sottoposti al Parlamento.
Non è del tutto una porta chiusa, però
Quello che è interessante notare è che Giorgetti ha lasciato uno spiraglio. Non una promessa – le promesse in questi ambiti sono rischiose – ma una porta leggermente socchiusa. Ha accennato alla possibilità che, qualora in prossimità della scadenza (il 30 novembre 2025 ricordate) emergessero margini di manovra, l’esecutivo potrebbe riconsiderare la posizione.
È il classico “vediamo come va” che i tecnici delle finanze amano usare. Significa in pratica: dipenderà da come andranno le cose. Se la situazione economica migliorerà, se gli incassi supereranno le previsioni, allora sì, forse qualcosa si potrà fare. Ma è condizionale puro.
Nel concreto, chi gestisce una partita IVA in questi giorni legge il messaggio così: preparatevi a pagare il 30 novembre, non confidiamo in rinvii per l’anno prossimo. Diverso il discorso per quanto riguarda il secondo acconto del 2025: quello beneficia ancora della proroga al 16 gennaio.
La proroga del secondo acconto resta parte della riforma fiscale
Quello che sfugge ai riflettori è che questa disputetta sulla rateizzazione non è un fuoco di paglia, uno strappo occasionale della politica. È inscritta, bensì, negli obiettivi più ampi della riforma fiscale. Lo evidenzia lo stesso Gusmeroli nella sua controreplica al silenzio del Ministero.
L’articolo 5 della legge delega numero 111 del 2023, al secondo comma, lettera f, contempla esplicitamente il principio di una migliore distribuzione nel tempo del carico impositivo. Non solo: prevede anche l’eventuale introduzione, in futuro, di una periodicità mensile dei versamenti. È un’idea che circola da anni negli ambienti tecnici, anche promossa dall’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini.
Significa che il rinvio del secondo acconto è un banco di prova. Non è estemporaneo: è coerente con una visione complessiva di come dovrebbero funzionare le tasse per i lavoratori autonomi.
Il nodo della continuità normativa
Qui emerge un problema strutturale. Le misure sperimentali vanno bene, attirano consenso, poi quando arriva il momento di trasformarle in norma ordinaria, gli ostacoli diventano tanti. I costi di bilancio, le compatibilità europee, gli equilibri tra le diverse parti della manovra.
Nel biennio 2023-2024 si è discusso poco. Era una prova. Ora ci si trova di fronte al bivio: riproporre la norma, ampliarla, renderla stabile oppure lasciarla decadere? La scelta economica è stata sin qui chiara.
Ma il dibattito non è completamente concluso. Gusmeroli ha manifestato il desiderio che, pur in extremis, si riesca a trovare una soluzione. Una richiesta più politica che tecnica, naturalmente. Dipenderà da come evolverà il negoziato sulla Legge di Bilancio nei prossimi settimane.
Che cosa cambierà per chi ha partita IVA
Dal punto di vista pratico, le piccole partite IVA che hanno beneficiato della sperimentazione sanno già come comportarsi: mettere da parte risorse per il 30 novembre 2025. È una procedura normale, quella di sempre. Quella che vigeva prima dell’esperimento durato due anni.
Non è una tragedia, sia chiaro. Molte imprese la affrontano tranquillamente ogni anno. Ma una finestra si è aperta e poi richiusa, e questo genera sempre un po’ di disappunto tra chi sperava in una continuità.
Il versamento resterà in un’unica soluzione o, per chi lo preferisce, in rate mensili autogestite (non c’è differenza a livello normativo). La scadenza sarà quella della tradizione: fine novembre.
A meno che, s’intende, negli ultimi giorni prima della scadenza non emerga qualche movimento parlamentare a sorpresa. Non sarebbe la prima volta che accade nella storia tributaria italiana. Per ora, però, le parole del Ministro dell’Economia pesano come cemento.
Un segnale più ampio: le priorità della finanza pubblica
Quello che è davvero degno di riflessione è il segnale che arriva da questa bocciatura. In un momento in cui il governo lamenta pressioni su bilancio pubblico e necessità di gettito, le scelte politiche sulla tassazione sono necessariamente sacrificali. Le agevolazioni, per quante siano giustificate da motivi di semplicità amministrativa o di equità, devono fare i conti con la scarsità di risorse.
Il rinvio di sei mesi, dal punto di vista dello Stato, equivale a quasi 600 milioni di euro (era la cifra stimata per la prima applicazione nel 2023). Non è poco, soprattutto in uno scenario di vincoli europei stringenti.
Questo non significa che il principio sottostante – distribuire meglio il carico fiscale nel tempo – sia scartato. Significa soltanto che la sua attuazione rimane posticipata. Magari a quando i conti dello Stato permitteranno margini di manovra maggiori.
Nel frattempo, chi gestisce un’attività economica di piccole o medie dimensioni sa a cosa attenersi. E sa anche che le speranze di prolungamenti rimangono appese a fattori macroeconomici che, per il momento, vanno controcorrente.

 


