Il governo conferma e amplia l’obbligo di certificazione fiscale e contributiva per i liberi professionisti. Con l’emendamento 129.1000 alla Manovra 2026, depositato in Commissione Bilancio del Senato, l’esecutivo estende il campo applicativo della disposizione originariamente contenuta nell’articolo 129, comma 10 del disegno di legge. La misura, che aveva suscitato immediate proteste da parte delle categorie ordinistiche a fine ottobre, non solo viene mantenuta ma si fa più penetrante. Adesso coinvolge anche le prestazioni rese a soggetti diversi dalla pubblica amministrazione quando i compensi gravano comunque sulle casse dello Stato.
La norma originaria e la sua riformulazione
La disposizione iniziale prevedeva che i professionisti dovessero dimostrare la propria regolarità con il fisco e con gli enti previdenziali per ottenere il pagamento dei compensi dalle amministrazioni pubbliche. La formula adottata dal governo nella prima versione parlava di “compensi per attività professionale da parte delle medesime amministrazioni”.
L’emendamento governativo modifica sensibilmente questo impianto. La nuova formulazione introduce due elementi: primo, l’ambito soggettivo si allarga agli “altri soggetti con compensi a carico dello Stato”; secondo, il riferimento non è più ai soli compensi ma ai “relativi emolumenti”, espressione che – secondo quanto previsto nella prassi amministrativa – include qualsiasi forma di retribuzione. Chi lavora per la PA o per enti che pagano con risorse pubbliche deve produrre la documentazione attestante la regolarità fiscale e contributiva insieme alla fattura. Senza questa certificazione, niente pagamento.
I meccanismi operativi della verifica
La disposizione introduce un sistema di controllo preventivo che inverte, per così dire, l’ordine tradizionale dei rapporti. Occorre infatti che il professionista chieda alla propria Cassa previdenziale di appartenenza (Inarcassa per architetti e ingegneri, Cassa Forense per gli avvocati, CNPADC per commercialisti, e così via) una certificazione analoga al DURC – il documento unico di regolarità contributiva – che attesti l’assenza di pendenze. Allo stesso modo serve un attestato di conformità fiscale dall’Agenzia delle Entrate.
Le pubbliche amministrazioni committenti sono chiamate, da parte loro, a verificare questa documentazione prima di procedere con il pagamento. E qui si apre il capitolo delle cartelle esattoriali. Secondo quanto emerso dalle riformulazioni successive, i controlli dovrebbero concentrarsi sulle sole somme già iscritte a ruolo, ossia quelle per cui è stata notificata una cartella di pagamento. Resta applicabile la disposizione contenuta nel D.P.R. 602/1973, che prevede una soglia di 5.000 euro per il blocco dei pagamenti: sotto questa cifra, nella prassi, la PA dovrebbe corrispondere comunque il compenso, trattenendo però l’importo della cartella.
Le reazioni del mondo professionale
La misura non ha trovato consensi presso gli ordini professionali. Il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, l’ha definita “vessatoria e discriminatoria”, facendo notare come i dipendenti pubblici, anche se inadempienti verso il fisco per importi rilevanti, mantengano il diritto alla retribuzione. Al contrario, un avvocato – o un altro professionista – perderebbe il diritto al compenso anche per inadempimenti di entità trascurabile.
Anche Confcommercio Professioni ha chiesto la soppressione della norma. La presidente Anna Rita Fioroni ha parlato di una “prova diabolica a carico dei professionisti”, sottolineando che già oggi esiste una previsione che blocca i pagamenti superiori a 5.000 euro quando ci sono importi iscritti a ruolo. Perché aggiungere un ulteriore strato burocratico?
L’Associazione Nazionale Commercialisti ha espresso preoccupazioni analoghe, rilevando che la misura si inserisce in un contesto dove la PA non rispetta i termini di pagamento e spesso ignora le norme sull’equo compenso. “Pretendere il DURC e il DURF da chi attende da mesi i propri compensi significa capovolgere il rapporto di responsabilità”, hanno scritto in una nota ufficiale.
Impatti pratici sul lavoro professionale
La questione non è solo di principio. Nella pratica quotidiana, questa norma potrebbe tradursi in rallentamenti significativi nei pagamenti. Ogni fattura dovrà essere accompagnata da certificazioni aggiornate, il che obbliga i professionisti a richiederle periodicamente – e le Casse previdenziali a rilasciarle con tempistiche che variano da ente a ente. Le amministrazioni pubbliche dovranno poi controllare la validità di questi documenti prima di liquidare qualsiasi importo.
Prendiamo il caso di un commercialista che segue diversi enti pubblici contemporaneamente. Se fattura a tre comuni diversi nello stesso mese, dovrà allegare a ciascuna fattura la documentazione di regolarità. Ma c’è di più: se nel frattempo riceve una cartella esattoriale (magari per una contestazione che intende impugnare), il meccanismo si blocca. Anche se l’importo è modesto, anche se il professionista sta già predisponendo il ricorso, il pagamento resta sospeso.
Oppure consideriamo un architetto che collabora con un’università pubblica per un progetto di ricerca finanziato dallo Stato. Rientra nell’ambito della norma? Secondo la nuova formulazione, che include “altri soggetti con compensi a carico dello Stato”, sembrerebbe di sì. Ma quali sono esattamente questi “altri soggetti”? La definizione lascia spazio a interpretazioni che dovranno essere chiarite nelle fasi applicative.
Prospettive applicative e nodi irrisolti
Restano aperti diversi interrogativi sull’attuazione concreta della norma. Come verrà gestita la validità temporale delle certificazioni? Se un professionista ottiene l’attestato di regolarità a gennaio, può utilizzarlo per tutte le fatture emesse nei mesi successivi, oppure serve un documento aggiornato ogni volta? E quali sono i tempi di rilascio da parte delle Casse previdenziali e dell’Agenzia delle Entrate?
Un altro aspetto critico riguarda le situazioni intermedie. Chi ha presentato ricorso contro una cartella esattoriale e sta aspettando l’esito del giudizio può considerarsi “regolare”? La norma non lo chiarisce espressamente. Nella prassi amministrativa, il ricorso sospende la riscossione ma non sempre interrompe gli effetti della notifica ai fini delle certificazioni.
C’è poi il tema dei professionisti forfettari. Molti giovani professionisti rientrano nel regime agevolato e spesso non hanno ancora posizioni previdenziali complesse. Dovranno comunque ottenere le certificazioni anche se il loro volume d’affari con la PA è limitato?
Le settimane che verranno saranno decisive. L’iter parlamentare è ancora in corso, e il testo potrebbe subire ulteriori modifiche. La commissione bilancio del Senato continuerà a lavorare anche nel weekend, con le votazioni che probabilmente inizieranno lunedì. Alcuni emendamenti proposti da Fratelli d’Italia cercavano di ammorbidire la norma, introducendo una soglia di 5.000 euro sotto la quale il pagamento sarebbe stato comunque garantito (con detrazione dell’importo della cartella). Ma la riformulazione del governo va in direzione opposta.
Le questioni di sistema che emergono
Al di là degli aspetti tecnici, questa vicenda solleva interrogativi più ampi sul rapporto tra Stato e professionisti. Da un lato c’è l’esigenza di contrastare l’evasione fiscale e contributiva, obiettivo sicuramente condivisibile. Dall’altro si introducono meccanismi che rischiano di creare asimmetrie e ingiustizie. Come sottolineato dal mondo professionale, nessun dipendente pubblico vede sospeso lo stipendio per morosità fiscali, nemmeno di importo elevato. Perché i professionisti dovrebbero subire un trattamento diverso?
Inoltre, la PA italiana è nota per i ritardi nei pagamenti. Pretendere certificazioni aggiuntive da chi già attende i compensi da mesi aggiunge un carico burocratico che, secondo molti osservatori, appare sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito. Esistevano già strumenti normativi per bloccare i pagamenti in caso di debiti rilevanti. Perché era necessario introdurre un sistema più stringente?
La risposta del governo sembra essere: maggiore controllo e trasparenza. Ma il mondo professionale contesta che questa strada rischi di produrre più danni che benefici, rallentando ulteriormente un sistema già inefficiente e penalizzando chi lavora correttamente.


