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La compatibilità tra cariche amministrative e rapporto di lavoro subordinato nelle società di capitali

7 Luglio, 2025

La questione della compatibilità tra la posizione di amministratore di società di capitali e il rapporto di lavoro subordinato con la medesima società rappresenta uno dei nodi più complessi del diritto societario e del lavoro contemporaneo. Non si tratta di una mera speculazione accademica, ma di una problematica che coinvolge quotidianamente migliaia di società, soprattutto nel tessuto imprenditoriale delle piccole e medie aziende, dove spesso i ruoli dirigenziali si concentrano in poche figure chiave. l a complessità della materia deriva dalla necessità di conciliare principi giuridici apparentemente contrastanti: da un lato, la natura organica del rapporto dell’amministratore con la società, caratterizzato dall’immedesimazione tra la persona fisica e l’ente societario; dall’altro, la possibilità di configurare un autonomo rapporto di lavoro subordinato fondato sul vincolo di subordinazione gerarchica. Questa apparente contraddizione ha generato nel tempo un articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che solo recentemente ha trovato una sistemazione organica grazie all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione.

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L’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale

La giurisprudenza di legittimità ha compiuto un percorso evolutivo significativo, abbandonando progressivamente un approccio rigidamente preclusivo per approdare a una valutazione più articolata e sostanziale della compatibilità tra i due rapporti. Questo processo di maturazione giurisprudenziale si è sviluppato attraverso diverse fasi, ciascuna delle quali ha contribuito a definire i contorni attuali della disciplina.

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Il punto di svolta si è avuto con la sentenza delle Sezioni Unite n. 25767/2017, che ha definitivamente chiarito la natura del rapporto dell’amministratore con la società. La Suprema Corte ha stabilito che tale rapporto è di natura organica e non lavorativa, caratterizzato dall’immedesimazione tra la persona fisica e l’ente societario. Secondo i Giudici di legittimità, l’amministratore coincide con la persona giuridica amministrata, esercitando i poteri di gestione e rappresentanza in nome e per conto della società stessa.

Tuttavia, questo principio fondamentale non preclude la possibilità di un cumulo di rapporti, purché vengano rispettati specifici requisiti che garantiscano l’effettiva sussistenza del vincolo di subordinazione. La giurisprudenza precedente aveva già iniziato a tracciare questa strada con le decisive pronunce delle Sezioni Unite n. 10680/1994 e la sentenza n. 1793/1996, che avevano affermato il criterio generale secondo cui lo svolgimento dell’attività di amministratore di società di capitali non esclude astrattamente la configurabilità di un rapporto di lavoro dipendente.

L’orientamento consolidato è stato ulteriormente confermato dalla recente ordinanza n. 5318 del 28 febbraio 2025, che ha stabilito come la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali sia compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, purché il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio-dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo. Questa pronuncia dimostra come la giurisprudenza tenda a privilegiare la sostanza sulla forma, valutando caso per caso l’effettiva sussistenza del vincolo di subordinazione.

La disciplina INPS e i principi di compatibilità

L’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ha dovuto progressivamente adeguare la propria prassi amministrativa all’evoluzione giurisprudenziale, abbandonando posizioni inizialmente più restrittive per allinearsi ai principi consolidati dalla Cassazione. Il percorso di allineamento non è stato privo di contraddizioni e ripensamenti, ma ha trovato una sistemazione organica con il messaggio n. 3359 del 19 settembre 2019.

In origine, l’INPS aveva adottato un approccio particolarmente rigido con la circolare n. 179/1989, che escludeva in linea di massima la possibilità per presidenti, amministratori unici e consiglieri delegati di essere riconosciuti come lavoratori subordinati della medesima società. Questa impostazione è stata successivamente rivisitata dal messaggio n. 12441/2011, che ha fornito chiarimenti sulla possibilità di instaurazione di un valido rapporto di lavoro subordinato tra la società cooperativa e il presidente della medesima, aprendo la strada a un approccio più flessibile.

Il messaggio n. 3359/2019 ha rappresentato il punto di arrivo di questo processo evolutivo, recependo sostanzialmente l’orientamento giurisprudenziale consolidato e fornendo parametri operativi per la valutazione della compatibilità. L’INPS ha chiarito che la semplice circostanza che il socio di società di capitali assommi in capo a sé anche l’incarico di amministratore, pur sintomatica della non sussistenza del vincolo di subordinazione, non è di per sé sufficiente a concludere per la non configurabilità del rapporto di lavoro subordinato.

I requisiti per la compatibilità: una valutazione articolata

La compatibilità tra cariche amministrative e rapporto di lavoro subordinato presuppone la sussistenza di tre condizioni fondamentali, la cui verifica deve essere condotta nel caso concreto attraverso una valutazione rigorosa e circostanziata. Questi requisiti costituiscono il filtro attraverso il quale deve passare ogni valutazione di compatibilità, rappresentando al contempo una garanzia per i contribuenti e un presidio contro possibili abusi.

Il primo requisito concerne l’attribuzione del potere deliberativo e impone che tale potere, diretto a formare la volontà dell’ente, sia affidato all’organo collegiale di amministrazione della società nel suo complesso e/o a un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale. Questa condizione mira a garantire che l’amministratore-dipendente non possa, di fatto, autodeterminarsi le proprie condizioni di lavoro attraverso l’esercizio dei poteri di gestione inerenti alla carica sociale. L’esigenza di un organo deliberativo distinto si fonda sulla necessità di preservare quella differenziazione tra soggetto dirigente e soggetto diretto che costituisce il presupposto fondamentale di ogni rapporto di lavoro subordinato.

Il secondo elemento richiede la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione e cioè dell’assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale rivestita, all’effettivo potere di supremazia gerarchica. Questo aspetto risulta particolarmente delicato nella prassi applicativa, poiché richiede una dimostrazione concreta dell’esistenza di un potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo esercitato da altri soggetti. La subordinazione deve manifestarsi attraverso elementi tangibili e verificabili, non limitandosi a mere affermazioni formali o a clausole contrattuali generiche.

La terza condizione prevede che l’amministratore svolga, in qualità di lavoratore dipendente, mansioni estranee al rapporto organico con la società che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite. Questa separazione funzionale rappresenta spesso l’elemento più complesso da dimostrare, soprattutto nelle strutture organizzative più snelle dove la rigida compartimentazione delle funzioni può risultare artificiosa. L’estraneità delle mansioni deve essere valutata non solo dal punto di vista formale, ma anche sostanziale, verificando che l’attività lavorativa sia effettivamente distinta e separata da quella amministrativa.

Le ipotesi di incompatibilità assoluta: profili sistematici

L’ordinamento giuridico individua alcune figure amministrative per le quali la compatibilità con il rapporto di lavoro subordinato è da escludere in via assoluta, in ragione della concentrazione di poteri che le caratterizza. Queste ipotesi di incompatibilità assoluta costituiscono un limite invalicabile alla configurazione del doppio rapporto e rappresentano l’applicazione rigorosa del principio secondo cui non può sussistere subordinazione laddove il medesimo soggetto concentri in sé i poteri di direzione e controllo.

L’amministratore unico rappresenta il caso paradigmatico di incompatibilità assoluta. Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, l’amministratore unico è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale, disponendo inoltre dei poteri di controllo, di comando e di disciplina. La concentrazione di tutte le prerogative gestorie in capo a un unico soggetto rende impossibile quella differenziazione tra soggetto dirigente e soggetto diretto che costituisce il presupposto fondamentale del rapporto di subordinazione. L’amministratore unico non può, per definizione, essere subordinato a se stesso, né può esercitare poteri disciplinari nei propri confronti.

Analogamente, per il presidente del consiglio di amministrazione sussiste assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione. Il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione. Il presidente del consiglio di amministrazione, in ragione delle sue prerogative, si trova in una posizione di supremazia gerarchica che non è compatibile con la soggezione tipica del rapporto di lavoro subordinato.

La giurisprudenza ha inoltre individuato un’ulteriore ipotesi di incompatibilità nella figura del socio “sovrano”, ossia il socio che abbia assunto di fatto nell’ambito della società l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione, tanto da risultare dominante rispetto alla società stessa. In questi casi, la concentrazione sostanziale del potere decisionale esclude la possibilità di configurare un rapporto di genuina subordinazione, indipendentemente dalla struttura formale degli organi societari.

Le situazioni dubbie: amministratore delegato e valutazione differenziata

La posizione dell’amministratore delegato richiede una valutazione particolarmente attenta e articolata, non potendosi ricondurre né alle ipotesi di compatibilità automatica né a quelle di incompatibilità assoluta. La configurabilità del rapporto di lavoro subordinato dipende essenzialmente dalla portata della delega conferita dal consiglio di amministrazione e dalle modalità concrete di esercizio dei poteri delegati.

Il messaggio INPS n. 3359/2019 ha fornito importanti chiarimenti in proposito, precisando che nell’ipotesi in cui l’amministratore sia munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del consiglio di amministrazione si ritiene che sia esclusa la compatibilità tra la carica sociale e un valido rapporto di lavoro subordinato. Questa valutazione si fonda sulla considerazione che una delega particolarmente ampia e comprensiva, che consenta all’amministratore di agire in piena autonomia senza dover rendere conto al consiglio, si traduce sostanzialmente in una concentrazione di poteri analoga a quella dell’amministratore unico.

Al contrario, quando la delega sia limitata a specifici ambiti operativi o sia sottoposta a vincoli e controlli da parte del consiglio di amministrazione, la compatibilità con il rapporto di lavoro subordinato può essere valutata positivamente, purché sussistano gli altri requisiti richiesti. La valutazione deve quindi concentrarsi non solo sulla portata formale della delega, ma anche sulle modalità concrete di esercizio dei poteri e sui rapporti effettivi tra l’organo delegato e il consiglio di amministrazione.

Particolarmente interessante è la recente pronuncia della Cassazione che ha affrontato il caso dell’amministratore di società composta da due soli soci, entrambi amministratori. La Suprema Corte ha stabilito che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio-dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci.

L’onere della prova e la dimostrazione del vincolo di subordinazione

La configurazione di un rapporto di lavoro subordinato in presenza di una carica amministrativa richiede una dimostrazione rigorosa degli elementi caratterizzanti la subordinazione. L’onere probatorio grava su colui che intende far valere il rapporto di lavoro subordinato, che deve fornire la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

La prova deve essere rigorosa e circostanziata, non potendosi limitare a elementi generici o presuntivi. Occorre dimostrare concretamente l’esistenza di un potere di direzione e controllo esercitato da soggetti diversi dall’amministratore-dipendente, attraverso la documentazione di atti, delibere, direttive o altri elementi che attestino l’effettivo esercizio della supremazia gerarchica. La mera previsione statutaria o contrattuale di meccanismi di controllo non è sufficiente se non accompagnata dalla dimostrazione del loro effettivo funzionamento.

La giurisprudenza ha chiarito che la prova della subordinazione deve essere valutata attraverso l’esame delle modalità concrete di svolgimento dell’attività lavorativa, considerando elementi quali l’osservanza di un orario di lavoro, la sottoposizione a direttive specifiche, l’assoggettamento a controlli e verifiche, la soggezione al potere disciplinare. Tutti questi elementi devono essere valutati unitariamente per verificare se, al di là della veste formale, sussista un effettivo rapporto di subordinazione.

Profili previdenziali e contributivi: la gestione del doppio rapporto

Dal punto di vista previdenziale, la coesistenza di cariche amministrative e rapporti di lavoro subordinato comporta significative implicazioni in termini di obblighi contributivi e di gestione delle posizioni assicurative. La duplicità del rapporto si riflette necessariamente sulla duplicità degli adempimenti previdenziali, con conseguente iscrizione a gestioni previdenziali separate e distinct.

I contributi previdenziali dovuti sui redditi percepiti come amministratore confluiscono nella gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, con l’applicazione dell’aliquota contributiva del 35,03% sul compenso erogato. Questa percentuale si applica integralmente quando l’amministratore non sia contemporaneamente iscritto ad altre gestioni previdenziali, mentre può subire variazioni nel caso di cumulo con altre posizioni assicurative.

Per quanto riguarda il rapporto di lavoro subordinato, si applicano le normali aliquote contributive previste per i lavoratori dipendenti, differenziate in base alla qualifica e al settore di appartenenza. La gestione contributiva del rapporto di lavoro subordinato segue le regole ordinarie, con ripartizione degli oneri tra datore di lavoro e lavoratore secondo le percentuali stabilite dalla normativa vigente.

La complessità del sistema contributivo richiede particolare attenzione nella gestione amministrativa dei rapporti, sia per evitare errori di classificazione sia per assicurare il corretto versamento dei contributi alle rispettive gestioni. L’eventuale errata qualificazione del rapporto può comportare conseguenze significative in termini di recupero contributivo e di applicazione di sanzioni.

Le conseguenze dell’incompatibilità: sanzioni e recuperi

Le conseguenze derivanti dalla mancata osservanza delle regole di compatibilità possono essere particolarmente severe, coinvolgendo sia profili previdenziali sia aspetti fiscali e societari. Il sistema sanzionatorio è volto a scoraggiare comportamenti elusivi e a garantire la corretta applicazione della normativa di settore.

Sul piano previdenziale, il rischio principale è rappresentato dal mancato riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato da parte dell’INPS, con conseguente imposizione del pagamento dei contributi mancanti e applicazione delle relative sanzioni. L’Istituto di previdenza sociale può procedere al recupero dei contributi non versati o versati in misura ridotta, applicando le maggiorazioni previste dalla normativa vigente per i versamenti tardivi.

Inoltre, nel caso in cui l’INPS accerti l’incompatibilità tra la carica amministrativa e il rapporto di lavoro subordinato, l’amministratore non può percepire la retribuzione a titolo di lavoro dipendente, con il rischio di dover restituire gli importi già ricevuti. La restituzione può essere accompagnata dall’applicazione di interessi e sanzioni, calcolati secondo i criteri previsti dalla normativa tributaria.

Sul piano societario, la mancata osservanza delle regole di compatibilità può comportare l’indeducibilità fiscale dei costi sostenuti per retribuzioni corrisposte a titolo di lavoro subordinato. L’Agenzia delle Entrate può infatti disconoscere la deducibilità di tali costi quando risulti che il presunto rapporto di lavoro subordinato non rispetti i requisiti di legge, con conseguenti maggiori imposte a carico della società.

Orientamenti applicativi e prassi professionale

Nella prassi professionale si registra una crescente attenzione alla corretta strutturazione e documentazione dei rapporti contrattuali, in considerazione della complessità della materia e delle potenziali conseguenze negative derivanti da una errata configurazione. La consulenza specialistica assume un ruolo fondamentale per orientare le scelte imprenditoriali e minimizzare i rischi operativi.

È opportuno, quando si intenda configurare un doppio rapporto, predisporre una documentazione contrattuale particolarmente dettagliata che distingua chiaramente le mansioni proprie dell’incarico amministrativo da quelle estranee al rapporto organico, oggetto del contratto di lavoro subordinato. La documentazione deve inoltre specificare i meccanismi di controllo e direzione che si intendono attivare e le modalità di esercizio dei poteri disciplinari.

La giurisprudenza ha talvolta interpretato in modo relativamente elastico i requisiti di compatibilità, soprattutto quando si tratti di società di dimensioni ridotte dove la rigida separazione dei ruoli può risultare artificiosa rispetto alla realtà operativa. Tuttavia, permane l’esigenza di dimostrare l’effettiva sussistenza del vincolo di subordinazione attraverso elementi concreti e verificabili.

L’esperienza applicativa suggerisce di prestare particolare attenzione alla documentazione delle decisioni assunte dagli organi societari, alla verbalizzazione delle riunioni e alla formalizzazione delle direttive impartite. Questi elementi costituiscono la base probatoria per dimostrare l’effettivo esercizio del potere di direzione e controllo da parte degli organi societari.

Prospettive evolutive della disciplina

Il quadro normativo attuale, seppur complesso, offre spazi di operatività per la configurazione di rapporti misti, purché vengano rispettati i principi consolidati dalla giurisprudenza e dalla prassi amministrativa. La tendenza evolutiva più recente sembra orientarsi verso una valutazione sempre più sostanziale piuttosto che formale, privilegiando l’accertamento concreto dell’effettiva subordinazione rispetto a schemi rigidi predeterminati.

L’orientamento giurisprudenziale continua a evolversi, fornendo nuovi spunti di riflessione e precisazioni interpretative. Il principio di fondo, tuttavia, rimane sostanzialmente invariato: la compatibilità è possibile, ma richiede una configurazione attenta e documentata dei rapporti, tale da garantire l’effettiva sussistenza del vincolo di subordinazione anche in presenza di cariche amministrative.

La prassi amministrativa dell’INPS mostra segni di progressiva stabilizzazione, con l’adozione di criteri di valutazione sempre più chiari e prevedibili. Tuttavia, permane un margine di discrezionalità valutativa che richiede un’attenta considerazione delle specificità di ogni singolo caso.

In prospettiva, è auspicabile un ulteriore chiarimento normativo che fornisca parametri ancora più precisi per la valutazione della compatibilità, al fine di ridurre l’incertezza interpretativa e garantire maggiore sicurezza giuridica agli operatori del settore.

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