info@studiopizzano.it

IVA fatture false

IVA fatture false: la Cassazione chiude le porte alla detrazione

31 Ottobre, 2025

[print_posts pdf="yes" word="no" print="yes"]

Una società aveva definito in adesione una contestazione per operazioni inesistenti, salvo poi tentare il recupero dell’imposta assolta. La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 26340/2025, ha ritenuto che l’IVA da fatture false non può essere portata in detrazione dal reddito. Una pronuncia che si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai consolidato, ma che lascia aperte alcune riflessioni sulla reale portata del principio di neutralità fiscale.

Il tema delle fatture soggettivamente inesistenti torna sotto la lente dei giudici. Una società aveva ricevuto un accertamento con il quale l’ufficio contestava l’utilizzo di documenti fiscali non genuini. Dopo aver aderito al procedimento e versato quanto dovuto (costi e IVA ripresi a tassazione), la stessa impresa ha chiesto il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto che, a suo dire, era comunque deducibile. Il giudice di secondo grado respingeva la pretesa. La società decideva quindi di appellarsi in Cassazione, lamentando un errore di diritto nella decisione.

🕒 Cosa sapere in un minuto

  • La Cassazione (ord. 26340/2025) ha negato il diritto di detrazione IVA da fatture false in presenza di comportamenti fraudolenti.
  • La detrazione e la deducibilità dei costi sono escluse se il contribuente partecipa consapevolmente alla frode, anche dopo definizione in adesione.
  • È fondamentale distinguere tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti: solo le seconde possono essere dedotte, se provata l’inerenza e la buona fede.
  • L’acquirente deve sempre verificare l’affidabilità del fornitore (visure, controlli VIES, certificati CCIAA, ecc.).
  • La definizione in adesione rappresenta riconoscimento dei rilievi: l’impresa non può recuperare l’IVA già versata dopo l’accertamento.
  • Le sanzioni per chi utilizza fatture false sono severe (dal 90% al 180% delle imposte non versate) e non è ammessa la deducibilità dei costi fraudolenti.
  • La giurisprudenza tutela il contribuente solo se dimostra concreta buona fede e rigorosi controlli preventivi sulla controparte.

La distinzione che conta davvero

Si consideri innanzitutto la differenza, nella prassi, tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti. Nel primo caso, la transazione non è mai avvenuta: non c’è stato scambio di beni né prestazione di servizi. Nel secondo, invece, l’operazione si è verificata, ma il fornitore indicato in fattura non corrisponde a quello reale.

Questa distinzione, come spesso accade nel diritto tributario, ha conseguenze pesanti. Secondo quanto previsto dall’art. 109, comma 4-bis del TUIR (introdotto dal D.L. n. 16/2012), i costi derivanti da operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili, a condizione che il contribuente riesca a dimostrarne l’inerenza e l’effettiva sostenuta. Di riflesso, l’IVA collegata a tali operazioni dovrebbe – almeno in linea teorica – seguire il medesimo regime.

Quando l’IVA diventa un costo irrecuperabile

Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione, però, la situazione presentava caratteristiche particolari. L’operazione contestata aveva natura fraudolenta. Il contribuente, secondo la ricostruzione dell’ufficio, era perfettamente consapevole che il proprio fornitore agiva come mero schermo, allo scopo di generare fatture fittizie. In proposito, occorre notare che la giurisprudenza eurounitaria è chiara: il diritto alla detrazione IVA viene meno quando l’acquirente sapeva (o avrebbe dovuto sapere, usando l’ordinaria diligenza) che si stava inserendo in una catena fraudolenta.

La Corte ha quindi osservato che l’IVA versata su fatture utilizzate nell’ambito di un disegno evasivo non può configurarsi come un costo di impresa. Si tratta, piuttosto, del compenso versato per partecipare a un’operazione illecita. Di conseguenza, il relativo importo non risponde ai requisiti di certezza, determinatezza e inerenza richiesti dal legislatore fiscale per la deducibilità. La norma che consente la deduzione dei costi da operazioni soggettivamente inesistenti presuppone, infatti, che il contribuente non fosse coinvolto nella frode.

Il paradosso del risparmio mancato

Qui emerge un aspetto talvolta trascurato. Se un’impresa versa denaro per ottenere fatture false, quell’esborso non produce alcun beneficio economico legittimo. È come se avesse pagato per commettere un illecito. La deduzione di tale “costo” comporterebbe, nella sostanza, un incentivo fiscale all’evasione: più si evade, più si recupera. Un risultato del tutto inaccettabile.

La sentenza, nella sua stringatezza, richiama un principio semplice quanto dirimente. Il contribuente non può pretendere di utilizzare le norme tributarie a proprio vantaggio quando la condotta posta in essere si colloca al di fuori dei confini della legalità. Diversamente, si finirebbe per premiare chi viola le regole, a danno di chi invece le rispetta.

Adesione all’accertamento e conseguenze sul piano probatorio

Un altro profilo degno di attenzione riguarda l’effetto della definizione in adesione. Quando il contribuente accetta il contenuto dell’atto impositivo e versa le somme dovute in misura ridotta (ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 218/1997), si produce un effetto preclusivo. Non si tratta di una mera transazione: l’adesione implica il riconoscimento della fondatezza delle contestazioni mosse dall’ufficio.

Nel caso esaminato, la società aveva definito l’accertamento che recuperava sia i costi (relativi alle fatture inesistenti) sia l’IVA. Successivamente, però, ha tentato di ottenere il rimborso dell’imposta, sostenendo che questa fosse comunque deducibile. La Cassazione ha rilevato che tale richiesta si pone in evidente contraddizione con quanto già accettato in adesione. Il contribuente, infatti, aveva implicitamente ammesso il carattere fraudolento delle operazioni contestate.

Onere della prova e consapevolezza del contribuente

Nella giurisprudenza più recente si osserva un rafforzamento degli obblighi di verifica gravanti sull’acquirente. Come affermato dalla Corte di Giustizia UE (sentenze Paper Consult, C-101/16 e Aquila Part Prod Com, C-512/21), l’amministrazione non può esigere che il soggetto passivo ponga in essere controlli complessi e approfonditi sulla catena di fornitura. Tuttavia, la presenza di anomalie evidenti (come prezzi fuori mercato, assenza di struttura organizzativa del fornitore, modalità di pagamento anomale) impone un livello di attenzione superiore.

Se l’ufficio fornisce elementi indiziari circa la fittizia del fornitore, spetta al contribuente dimostrare di aver agito con la dovuta diligenza. In assenza di tale prova, l’amministrazione è legittimata a negare il diritto alla detrazione. Secondo quanto previsto dall’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, infatti, la detrazione presuppone che l’operazione sia effettiva e che il soggetto che emette la fattura abbia i requisiti previsti dalla legge.

Le conseguenze pratiche per le imprese

La decisione della Cassazione impone una riflessione attenta da parte degli operatori economici. L’utilizzo di fatture false espone l’impresa a un duplice rischio. Da un lato, il recupero dei costi e dell’IVA indebitamente dedotti, con applicazione delle sanzioni previste dalla legge (dal 90% al 180% delle imposte non versate, ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997). Dall’altro, l’impossibilità di recuperare quanto versato al falso fornitore.

Nella pratica professionale si osserva che molte imprese sottovalutano l’importanza di verificare l’affidabilità della controparte. Piccoli segnali – come l’assenza di una sede fisica effettiva, l’utilizzo di numeri di telefono non tracciabili, richieste di pagamenti in contanti – dovrebbero far scattare un campanello d’allarme. È necessario conservare evidenza delle verifiche effettuate (visure camerali, check sulla partita IVA, controlli VIES per i fornitori comunitari), al fine di dimostrare, in caso di contestazione, la propria buona fede.

Fatture soggettivamente inesistenti: una zona grigia

Occorre distinguere, come già accennato, tra due diverse situazioni. Se l’operazione è reale ma il fornitore indicato è diverso da quello effettivo, i costi possono essere dedotti (previa dimostrazione dell’inerenza) e l’IVA – in linea teorica – dovrebbe seguire il medesimo trattamento. Tuttavia, la Cassazione con la pronuncia in esame ha chiarito che il principio di neutralità non opera quando il contribuente partecipa consapevolmente a una frode.

In altre parole, la deducibilità dei costi da operazioni soggettivamente inesistenti (prevista dal comma 4-bis dell’art. 109 TUIR) presuppone l’assenza di dolo o colpa grave da parte dell’acquirente. Se invece emerge che l’impresa era a conoscenza del carattere fraudolento dell’operazione – o avrebbe dovuto accorgersene usando l’ordinaria diligenza – viene meno ogni possibilità di recupero, sia per i costi sia per l’imposta.

Riflessioni sulla tutela del contribuente in buona fede

La giurisprudenza comunitaria ha affermato con chiarezza che il contribuente in buona fede non può subire le conseguenze negative di una frode commessa da terzi, a monte o a valle della catena commerciale. Tuttavia, per poter invocare tale tutela, è necessario dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni ragionevolmente esigibili. Non basta affermare di non essere stati a conoscenza della frode: bisogna provare di aver verificato la controparte, di aver controllato la coerenza delle operazioni, di aver richiesto documentazione integrativa in presenza di dubbi.

Nella casistica esaminata dai giudici tributari si nota che l’amministrazione riesce spesso a dimostrare, attraverso indizi gravi, precisi e concordanti, che il contribuente non poteva ignorare le anomalie. La definizione in adesione dell’accertamento, poi, costituisce un elemento fortemente ostativo rispetto a successivi tentativi di recupero. Si ricorda, infatti, che l’adesione comporta il riconoscimento della legittimità delle riprese operate dall’ufficio.

Gli strumenti di prevenzione per gli operatori

Per evitare di incorrere in contestazioni, le imprese dovrebbero adottare protocolli di verifica dei fornitori, soprattutto quando si tratta di nuove controparti o di operazioni di importo significativo. È opportuno richiedere:

  • Copia del certificato di iscrizione alla Camera di Commercio;
  • Verifica della partita IVA tramite il portale dell’Agenzia delle Entrate;
  • Controllo VIES per i fornitori comunitari;
  • Informazioni sulla struttura organizzativa (presenza di dipendenti, sede operativa, mezzi aziendali).

Si consideri inoltre l’utilità di inserire nei contratti clausole di garanzia in base alle quali il fornitore si impegna a tenere indenne l’acquirente da eventuali contestazioni fiscali. Tali pattuizioni, per quanto non impediscano il recupero da parte dell’amministrazione, possono consentire un’azione di rivalsa nei confronti della controparte inadempiente.

Conclusioni operative

L’ordinanza n. 26340/2025 ribadisce un principio già più volte affermato dalla giurisprudenza: l’IVA da fatture false, quando l’operazione è inserita in un contesto fraudolento e il contribuente ne è consapevole (o avrebbe dovuto esserlo), non è né deducibile né detraibile. La definizione in adesione dell’accertamento rende poi difficilmente praticabili successivi tentativi di recupero dell’imposta.

Per le imprese, la lezione è chiara. Non è sufficiente affidarsi alla formale regolarità della fattura ricevuta. È necessario verificare l’effettività delle operazioni e l’affidabilità dei fornitori, soprattutto quando emergono elementi di anomalia. La mancata adozione di tali cautele può comportare non solo il recupero delle imposte e l’applicazione delle sanzioni, ma anche la perdita definitiva delle somme versate al falso fornitore. Una doppia beffa che sarebbe facile evitare con un minimo di attenzione preventiva.

Articoli correlati per Categoria