Quando il tribunale accende i riflettori su chi si spaccia per consulente titolato, la linea tra competenza e illegittimità si traccia con nettezza. È quello che ha fatto la Suprema Corte con il deposito della sentenza n. 33866 del 15 ottobre 2025, un pronunciamento che ribadisce con forza le conseguenze di chi opera fuori dai confini della legalità.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- La Cassazione ribadisce che l’esercizio non autorizzato e continuativo di attività tipiche da commercialista costituisce reato, anche se le singole prestazioni non sono riservate.
- In mancanza di abilitazione e iscrizione all’albo, la “apparenza” organizzata e sistematica della consulenza consente la condanna ex art. 348 c.p.
- L’accesso al cassetto fiscale senza delega formale rappresenta violazione penale, a prescindere dai compiti contabili affidati.
- La condanna: 9 mesi di reclusione e multa di 10.500 euro per l’imputato tributarista abusivo.
- I nuovi controlli e le attività dei professionisti e associazioni puntano a prevenire l’abusivismo: chiarezza su titoli e mansioni obbligatoria nei rapporti con il cliente.
Una storia fatta di firma falsificata
La vicenda racchiude in sé diversi profili di criticità. Una titolare di agenzia viaggi si ritrova sommersa da irregolarità contabili ed è qui che scoppia il caso: quelle negligenze arrivavano tutte da un consulente che si presentava come professionista regolarmente iscritto, salvo poi rivelarsi un abusivo. Non si trattava di qualcosa di marginale. In realtà, costui aveva gestito la contabilità dell’azienda per anni, si occupava della gestione del personale (delegando però questo aspetto a un altro incaricato di cui aveva fiducia) e soprattutto aveva fatto qualcosa di ancor più grave: aveva aperto un cassetto fiscale intestato alla cliente apponendo una firma falsificata sulla delega necessaria per autorizzare tale operazione.
Il modus operandi: autonomia totale e comunicazioni contraddittorie
Come emerge dalle motivazioni della Corte d’Appello di Brescia (poi confermata dagli Ermellini), l’operatore lavorava con piena discrezionalità. Inviava alla proprietaria dell’agenzia delle bozze di dichiarazioni fiscali, però poi depositava presso l’Agenzia delle Entrate documenti totalmente difformi da quelli visti. E negli ultimi tempi, quando probabilmente intuì che una verifica fiscale avrebbe portato a situazioni difficili, presentò dichiarazioni integrative senza nemmeno avvisare l’interessata.
Questo comportamento – fatto di discrepanze sistematiche, comunicazioni incomplete e iniziative prese senza consenso – costituisce un elemento cruciale nella ricostruzione del fatto tipico.
Gli argomenti della difesa e il muro della giurisprudenza
La strategia difensiva ha provato diverse strade. Anzitutto ha sottolineato che il soggetto fosse regolarmente iscritto dal 2000 presso un’associazione di tributaristi autorizzata. La legge 4/2013 riconosce esplicitamente questa figura professionale agli articoli 1 e 2, permettendole di operare nel campo della consulenza tributaria. È vero pure che la tenuta della contabilità e la redazione delle dichiarazioni fiscali non sono prerogative esclusive del commercialista: pure gli altri professionisti possono fare queste cose, almeno sulla carta.
I difensori hanno aggiunto un ulteriore argomento: ciò che conta non è come uno si presenta formalmente al cliente, ma quali attività svolge nella pratica concreta. E da una prospettiva normativa, è corretto che i tributaristi abbiano un loro codice ATECOFIN, siano autorizzati come intermediari con INPS, INAIL e ovviamente con l’Agenzia delle Entrate. La Corte d’appello, secondo questa logica difensiva, avrebbe dovuto valutare tutto questo.
Però la Cassazione non ha avuto incertezze. Ha richiamato il principio fissato dalle Sezioni Unite già nel 2012 con la sentenza n. 11545, una linea giurisprudenziale che non ammette scorciatoie. Il punto è questo: anche nel caso in cui singolarmente determinate attività non siano riservate per legge ai soli commercialisti, quando vengono esercitate con continuità marcata, corrispettivo economico consistente e un’organizzazione manifesta tale da creare l’apparenza di un’attività professionale riservata, scatta senza dubbio il reato previsto dall’articolo 348 del codice penale.
L’esercizio abusivo della professione: quando l’apparenza conta più della forma
Nel caso in questione, l’esercizio abusivo della professione si concretizzava in più elementi confluenti. L’imputato si presentava costantemente come professionista regolarmente iscritto – non solo alla cliente, ma anche ai dipendenti dell’agenzia. Aveva gestito sistematicamente l’intera gestione contabile per un arco temporale prolungato. Aveva mantenuto la responsabilità degli adempimenti connessi ai rapporti di lavoro dipendente. Controllava le dichiarazioni dei redditi con assoluta autonomia, tanto che la titolare riceveva esclusivamente bozze, mentre i veri documenti trasmessi all’amministrazione erano completamente diversi. Sommate insieme: continuatività, onerosità, organizzazione strutturata. Tutti elementi che producono quella “apparenza” di professionalità riservata che il nostro ordinamento vuole proteggere.
È insomma il quadro completo che fa la differenza. Non è la singola prestazione occasionale, ma il comportamento sistematico e organizzato quello che rileva penalmente.
L’accesso abusivo al cassetto fiscale: una questione di autorizzazione
Sul versante dell’accesso abusivo al sistema informatico (articolo 615-ter del codice penale), i giudici di legittimità hanno escluso categoricamente che potesse fungere da scusante il fatto che la cliente aveva conferito al consulente l’incarico di curare la contabilità e le dichiarazioni. Qui sta un punto delicato e spesso sottovalutato.
Il cassetto fiscale non costituisce un obbligo normativo per chi opera in regime di partita IVA. Si tratta di un servizio facoltativo, uno strumento che il contribuente può decidere liberamente di attivare oppure di non utilizzare. E proprio perché facoltativo, la legge richiede un’autorizzazione specifica da parte dell’interessato. Nel caso di specie, tale autorizzazione non era stata mai fornita. La firma apposta sulla delega era stata falsificata. Quindi, per quanto il cliente avesse affidato al consulente compiti di natura contabile, non poteva affidare implicitamente l’accesso al cassetto: servirebbe un atto formale, una delega volontaria. L’assenza di questo documento trasforma l’accesso da lecito in illegittimo, integrando a pieno titolo il reato informatico.
Continuità e severità: il messaggio della Cassazione
La sentenza della Cassazione, depositata a ottobre di questo anno, ribadisce e non ammorbidisce la linea già tracciata più di un decennio fa dalle Sezioni Unite. In un contesto dove spesso la prassi amministrativa e la tolleranza informale creano zone grigie, il pronunciamento rimette ordine. Chi esercita attività professionali senza la dovuta abilitazione, quando lo fa in modo sistematico e organizzato, commette reato. Non importa che la singola attività di per sé non sia riservata per legge. Non importa che il cliente sappia chi ha davanti. Quel che rileva è se chi opera crea le condizioni per far credere di possedere titoli che non ha.
La condanna di 9 mesi di reclusione e 10.500 euro di multa rappresenta la cifra di una decisione che mira a scoraggiare l’abusivismo nel settore della consulenza, un ambito dove la fiducia dei clienti riposa sulla qualificazione e sulla responsabilità di chi viene incaricato.
Riflessioni su una battaglia ancora aperta
Nel frattempo, il CNDCEC – il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili – ha annunciato la costituzione di un pool di legali dedicato specificamente al monitoraggio e alla segnalazione di casi di esercizio illegittimo della professione. L’Istituto Nazionale dei Tributaristi, dal suo angolo, sottolinea l’importanza che ogni professionista indichi chiaramente, in tutti i documenti e le comunicazioni, la propria qualificazione, il nome dell’associazione di appartenenza e il numero di iscrizione, facendo riferimento alle disposizioni della legge 4/2013. Non è un dettaglio formale: è un modo per eliminare equivoci e prevenire tentativi di abuso.



