La questione dell’inventario continua a segnare la linea di confine tra contabilità attendibile e possibilità di accertamento induttivo. La Cassazione, con l’ordinanza 30371 depositata il 18 novembre 2025, ha confermato una lettura ormai stabile: quando l’inventario manca o è redatto in maniera incompatibile con le regole civilistiche, l’Agenzia può legittimamente ricorrere all’accertamento induttivo “puro”. Una soluzione che, nella prassi, assume un peso concreto per chi omette l’inventario analitico di magazzino.
🕒 Cosa sapere in un minuto
- L’inventario è obbligatorio e deve essere analitico, conforme all’art. 2217 c.c. e all’art. 15 D.P.R. 600/1973.
- La sua assenza rende inattendibile la contabilità e legittima l’accertamento induttivo puro.
- La Cassazione considera irrilevante la produzione tardiva dell’inventario.
- Le presunzioni utilizzabili dall’Agenzia possono essere anche supersemplici.
- Un inventario corretto è uno strumento di difesa essenziale nei controlli sul magazzino.
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Cosa richiede davvero la normativa civilistica
Il riferimento principale rimane l’articolo 2217 del Codice Civile. Chiede che l’inventario sia redatto entro tre mesi dalla chiusura dell’esercizio e sottoscritto dall’imprenditore. Sembra una regola semplice, e invece porta con sé implicazioni operative che spesso vengono sottovalutate. Il legislatore, infatti, pretende non solo un elenco dei beni, ma anche indicazioni che consentano una comprensione minima del valore dell’impresa.
L’articolo 15 del D.P.R. 600/1973 interviene in maniera più tecnica e impone che la consistenza dei beni sia indicata per categorie omogenee, con la precisazione della natura dei beni e del valore attribuito a ciascun gruppo. Un quadro che, letto così, potrebbe sembrare eccessivo per le realtà minori. Eppure, proprio quelle realtà, anche in contabilità semplificata, restano obbligate alla predisposizione di un inventario, purché essenziale ma comunque idoneo.
L’approccio degli uffici quando l’inventario manca
Il vero punto critico si concentra sull’articolo 39, primo comma, lettera d), del D.P.R. 600/1973. È la norma che permette all’Agenzia delle Entrate di utilizzare il metodo induttivo quando la contabilità risulta inattendibile. Ed è lì che entra in scena l’inventario: se manca, o se è talmente generico da rendere impossibile la verifica, l’ufficio è autorizzato a procedere con un accertamento fondato su presunzioni.
L’articolo 3, comma 2, del D.P.R. 695/1996 precisa però che le irregolarità del magazzino non assumono rilievo se contenute nei limiti della normale tolleranza. Questo inciso crea qualche margine di valutazione, ma la Cassazione ha chiarito che quel margine non salva i casi in cui l’inventario non consente la ricostruzione delle quantità o dei valori dei beni.
La Cassazione rafforza il concetto di obbligatorietà
La Corte ha ribadito, nelle diverse pronunce dell’ultimo decennio, che la mancanza dell’inventario analitico rappresenta un elemento decisivo per giustificare l’induttivo. L’ordinanza 30371/2025 è solo l’ennesima conferma. I giudici hanno osservato che non basta affermare di possedere i beni o di averli registrati nelle scritture giornaliere. Serve un documento che consenta una verifica reale e che rifletta l’esistenza, la natura e il valore dei beni disponibili a fine esercizio.
In assenza di ciò, l’amministrazione può legittimare un recupero basato su presunzioni semplici o addirittura supersemplici, previste dallo stesso articolo 39, 2 comma, secondo cui il disordine contabile è sufficiente a rendere inattendibile l’intero impianto documentale.
L’impatto operativo per imprese e professionisti
La giurisprudenza più recente spinge verso un’interpretazione molto concreta: l’inventario non è una formalità, ma un documento che deve esistere e deve essere utile. Quando non c’è, l’accertamento induttivo diventa una possibilità immediata. Le contestazioni, in questi casi, ruotano quasi sempre attorno a due aspetti diversi: l’impossibilità di ricostruire la consistenza dei beni e la difficoltà di verificare gli scostamenti rispetto ai dati dichiarati.
Nella prassi è emerso un ulteriore effetto collaterale. Anche quando il contribuente tenta di produrre la documentazione tardivamente, la Cassazione considera quella produzione irrilevante, salvo casi davvero eccezionali. La logica è semplice: l’inventario va predisposto entro tre mesi dalla chiusura dell’esercizio; una ricostruzione successiva non ha lo stesso valore probatorio.
Verso quali controlli si sta andando
Gli uffici, oggi, guardano con estrema attenzione alla gestione del magazzino. L’incrocio tra dati IVA, acquisti, vendite e movimentazioni bancarie mette immediatamente in evidenza eventuali incongruenze. Se l’inventario non esiste, o è puramente descrittivo, il rischio che l’Agenzia avvii un controllo basato sull’articolo 39 è molto concreto. E può trasformarsi in un accertamento anche pesante per imprese e professionisti.
In questo quadro, il messaggio che arriva dalla Cassazione è netto: senza inventario, la difesa diventa più debole e il contribuente si espone a un metodo ricostruttivo molto invasivo. Un inventario ben fatto, invece, rappresenta una forma di tutela, perché consente agli uffici una verifica puntuale e limita l’uso delle presunzioni.



