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Responsabilità cessionario azienda

Responsabilità cessionario azienda: quando l’acquirente paga i debiti tributari del cedente

15 Ottobre, 2025

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La Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con la sentenza n. 203/1/2025, ha ribadito un principio che spesso viene sottovalutato nelle operazioni di acquisizione aziendale. Chi compra un’attività senza prima richiedere il certificato sui carichi fiscali pendenti si trova a rispondere in solido dei debiti tributari del venditore, anche quando questi non sono ancora stati formalmente accertati. Una posizione che, se da un lato tutela l’Erario, dall’altro espone l’acquirente a passività fiscali che potrebbero non essere emerse durante la due diligence preliminare.

🕒 Cosa sapere in un minuto

  • Chi acquista un’azienda risponde dei debiti tributari del cedente se non richiede il certificato carichi pendenti.
  • La responsabilità riguarda solo i debiti riferibili al triennio precedente alla cessione e fino al valore dell’azienda.
  • Il certificato dell’Agenzia delle Entrate libera il cessionario da pretese future, se negativo o non rilasciato entro 40 giorni.
  • Onere della prova a carico del cessionario: servono certificato e documentazione precisa per escludere i debiti non inerenti.
  • Eccezioni: cessioni in frode ai creditori e procedure concorsuali.

La vicenda esaminata dalla commissione emiliana

Nel caso sottoposto ai giudici tributari, la cessionaria di un ramo d’azienda aveva ricevuto un’intimazione di pagamento relativa a debiti fiscali del precedente proprietario. L’importo richiesto si riferiva a violazioni tributarie commesse negli anni precedenti al trasferimento. La contribuente, ritenendo illegittima la pretesa, aveva proposto ricorso eccependo la mancanza di prova sul fatto che le pendenze fiscali fossero effettivamente riconducibili alla porzione di attività acquisita. Secondo la tesi difensiva, insomma, l’intimazione non avrebbe potuto essere opposta senza prima dimostrare che i debiti contestati riguardassero specificamente il ramo ceduto e non altre attività rimaste in capo al venditore.

Il collegio ha respinto il ricorso. Non tanto perché la tesi fosse priva di fondamento in astratto, ma perché la ricorrente non aveva adempiuto a un obbligo preventivo previsto dalla normativa tributaria: chiedere all’Amministrazione finanziaria il rilascio del certificato attestante l’esistenza o meno di contestazioni in corso. Tale mancanza, ha chiarito la commissione, preclude qualsiasi possibilità di contestare successivamente la legittimità della richiesta di pagamento mediante ricorso in sede contenziosa. Una volta che l’intimazione diventa definitiva per mancata impugnazione nei termini, il gioco è fatto.

Il quadro normativo della responsabilità tributaria

Occorre distinguere due piani di disciplina. Da un lato abbiamo l’art. 2560 del Codice civile che regola, nella sua generalità, gli effetti della cessione d’azienda sui debiti. Questa norma stabilisce che l’acquirente risponde dei debiti relativi all’attività ceduta, purché risultino dai libri contabili obbligatori. Una responsabilità solidale con il venditore, che però può essere esclusa mediante un patto espresso tra le parti (anche se tale pattuizione non produce effetti nei confronti dei terzi creditori).

L’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 introduce invece una disciplina speciale per i debiti tributari. Si tratta di una norma che estende e rafforza la responsabilità del cessionario rispetto al regime civilistico ordinario. Il primo comma prevede che chi acquista un’azienda o un ramo di essa risponde in solido con il cedente per il pagamento delle imposte e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti. La responsabilità riguarda anche le violazioni già contestate o irrogate nel medesimo periodo triennale, anche se riferite a comportamenti ancora più risalenti nel tempo.

Ma attenzione. Questa responsabilità non opera in modo illimitato. Essa è circoscritta, anzitutto, al valore dell’azienda o del ramo d’azienda acquisito (secondo comma dell’art. 14). In pratica, l’Erario non può pretendere dal nuovo proprietario più di quanto valga il compendio aziendale trasferito. Inoltre è previsto il beneficio della preventiva escussione del cedente: l’Amministrazione finanziaria deve prima tentare di recuperare le somme dal venditore originario e solo se questo risulta incapiente può rivalersi sul cessionario.

Il certificato liberatorio e i suoi effetti

Proprio per evitare che l’acquirente si trovi esposto a passività fiscali ignote, il legislatore ha previsto uno strumento di tutela preventiva. Ai sensi del comma 3 dell’art. 14 citato, chiunque sia interessato (quindi sia il cedente che il cessionario) può richiedere agli uffici dell’Agenzia delle Entrate un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati ancora soddisfatti.

Se il certificato risulta negativo, vale a dire se attesta l’assenza di pendenze fiscali, esso produce un pieno effetto liberatorio per il cessionario. Significa che, anche qualora successivamente dovessero emergere debiti tributari riferibili al periodo di competenza del cedente, l’acquirente non potrebbe essere chiamato a risponderne. Il medesimo effetto si produce nel caso in cui l’Amministrazione non rilasci il certificato entro 40 giorni dalla richiesta.

Si tratta di un meccanismo che rovescia l’onere del rischio. Se il cessionario richiede e ottiene (o non ottiene nei termini) il certificato, si libera da ogni possibile pretesa futura. Se invece, come nella vicenda decisa dalla CTP emiliana, omette di richiedere tale documento, rimane esposto alla responsabilità solidale nei limiti e alle condizioni previste dalla norma. Come spesso accade nella prassi, molti operatori sottovalutano questo passaggio durante la negoziazione dell’acquisto, concentrandosi maggiormente su aspetti economici e organizzativi.

L’onere probatorio del cessionario e il principio di inerenza

Quando si tratta di cessione di un ramo d’azienda (e non dell’intera attività), sorge un ulteriore profilo di complessità. È ragionevole ritenere che il cessionario dovrebbe rispondere solo dei debiti tributari afferenti al ramo acquisito e non di quelli collegati ad altre porzioni dell’impresa rimaste nella disponibilità del cedente. La giurisprudenza, tuttavia, ha chiarito che spetta al cessionario dimostrare tale non inerenza.

La sentenza n. 203/1/2025 ribadisce questo principio con fermezza. Il collegio emiliano ha evidenziato che, sebbene le presunzioni attestate nei bilanci e nella documentazione contabile avessero fatto emergere che l’attività trasferita rappresentava l’86% del fatturato complessivo, ciò non era sufficiente a escludere la riconducibilità dei debiti tributari al ramo ceduto. Nella pratica professionale si osserva frequentemente come la difficoltà di scorporare con precisione le passività fiscali costituisca un punto critico nelle operazioni straordinarie.

L’onere probatorio grava dunque sull’acquirente. E la prova non può essere data mediante presunzioni o ricostruzioni indirette (come potrebbero essere gli studi di settore o i parametri di normalità economica). Occorre produrre il certificato previsto dall’art. 14, comma 3, e la documentazione contabile che dimostri in modo puntuale la non riferibilità del debito al compendio aziendale acquisito.

Quando il ricorso diventa inammissibile

Un aspetto centrale della pronuncia riguarda le conseguenze processuali della mancata richiesta del certificato. La commissione ha affermato che, in presenza di un’intimazione di pagamento non impugnata tempestivamente, il cessionario perde definitivamente la possibilità di contestare la pretesa tributaria. Anche se, come nel caso di specie, l’interessato propone successivamente ricorso avverso il silenzio-rigetto dell’istanza di rimborso delle somme medio tempore versate.

In altri termini, una volta che l’atto impositivo diventa definitivo, non è più possibile attivare la tutela restitutoria. Il contribuente dovrebbe agire tempestivamente impugnando l’atto di riscossione entro i termini ordinari. In caso contrario, ove sussista una richiesta di pagamento medio tempore dispositivo, il ricorso risulta inammissibile perché occorre proporre preventivo ricorso nel momento in cui l’atto diventa esigibile. Si tratta di una conseguenza procedurale che talvolta sfugge ai non addetti ai lavori.

Le eccezioni: cessioni in frode e procedure concorsuali

La disciplina fin qui descritta conosce due deroghe significative. La prima riguarda le cessioni poste in essere in frode ai crediti tributari. In questa ipotesi, secondo il comma 4 dell’art. 14, la responsabilità del cessionario non è soggetta ad alcuna limitazione. Né quanto al valore dell’azienda ceduta, né quanto al beneficio della preventiva escussione. La frode si presume quando il trasferimento avvenga entro 6 mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante, salvo prova contraria. Naturalmente spetta all’Amministrazione finanziaria dimostrare la sussistenza della frode.

La seconda eccezione, introdotta dal comma 5-bis dell’art. 14 (modificato dal D.Lgs. n. 14/2019 sul Codice della crisi d’impresa), prevede che la responsabilità solidale non si applichi quando la cessione avviene nell’ambito della composizione negoziata della crisi o di uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale previsti dal Codice della crisi. Si pensi al concordato preventivo, alla liquidazione giudiziale, agli accordi di ristrutturazione omologati. In questi casi il legislatore ha ritenuto prevalente l’interesse al risanamento dell’impresa rispetto alla tutela del credito erariale.

Profili applicativi e criticità ricorrenti

Nella casistica comune emergono alcune situazioni ricorrenti che meritano attenzione. Il primo aspetto critico riguarda il momento in cui effettuare la richiesta del certificato. È opportuno richiederlo prima della sottoscrizione dell’atto di cessione, in modo da conoscere preventivamente l’esistenza di eventuali pendenze fiscali e poter negoziare di conseguenza il prezzo o le garanzie contrattuali. Tuttavia, si consideri che tra la data di rilascio del certificato e quella di perfezionamento del trasferimento potrebbe intercorrere un lasso temporale durante il quale potrebbero insorgere nuove contestazioni. Per questo periodo intermedio, il cessionario non può ritenersi esonerato da responsabilità.

Un secondo profilo attiene alla completezza delle informazioni certificate. Il certificato rilasciato dall’Agenzia delle Entrate riporta le contestazioni in corso e quelle definite con debiti residui. Non include, per ovvie ragioni, le eventuali violazioni non ancora constatate o accertate dall’Amministrazione. Questo vuol dire che l’effetto liberatorio opera solo con riferimento a quanto risultante dagli atti dell’Ufficio alla data di emissione del certificato.

Un terzo aspetto, spesso trascurato, concerne l’estensione della responsabilità ai debiti non ancora quantificati. Come rilevato dalla giurisprudenza, la norma tributaria fonda una responsabilità “in bianco” del cessionario per tutti i debiti fiscali del cedente relativi al triennio anteriore alla cessione, anche se al momento del trasferimento ancora incerti nell’an e nel quantum. Ciò significa che non è necessario che il debito sia già stato formalmente accertato o liquidato perché possa essere fatto valere nei confronti dell’acquirente, purché risulti dagli atti dell’Amministrazione.

Indicazioni operative per professionisti e imprese

Alla luce di quanto esposto, è fondamentale che nelle operazioni di cessione di azienda o di ramo d’azienda venga prestata massima attenzione alla verifica della posizione fiscale del cedente. La richiesta del certificato previsto dall’art. 14, comma 3, del D.Lgs. n. 472/1997 rappresenta un passaggio obbligato per chi voglia tutelare adeguatamente la propria posizione.

In sede di negoziazione contrattuale, sarebbe opportuno:

  • richiedere il certificato liberatorio prima della sottoscrizione del contratto definitivo
  • inserire clausole di garanzia che obblighino il cedente a manlevare l’acquirente da eventuali pretese fiscali successive
  • verificare la completezza della documentazione contabile e delle dichiarazioni fiscali degli ultimi tre anni
  • considerare l’opportunità di trattenere una quota del prezzo a garanzia di eventuali passività fiscali sopravvenienti

Per quanto riguarda l’aspetto processuale, qualora il cessionario riceva un atto di riscossione relativo a debiti del cedente, è necessario valutare con attenzione se sussistano i presupposti per proporre ricorso. La mancata richiesta del certificato non preclude automaticamente la possibilità di difesa, ma rende certamente più complessa la dimostrazione della non riferibilità del debito al compendio aziendale acquisito. In ogni caso, l’impugnazione deve avvenire entro i termini ordinari di 60 giorni dalla notifica dell’atto.

La sentenza della CTP di Reggio Emilia n. 203/1/2025 costituisce un ulteriore tassello nella consolidata giurisprudenza che valorizza il ruolo del certificato liberatorio quale strumento di prevenzione delle controversie e di certezza nei rapporti tra contribuenti e Amministrazione finanziaria. La sua mancata richiesta comporta conseguenze che, come dimostrato, possono risultare particolarmente gravose per chi acquisisce un’attività d’impresa.

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