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Compensi degli amministratori negli enti sportivi: il delicato equilibrio tra proporzionalità e status dilettantistico

5 Giugno, 2025

Il settore degli enti sportivi dilettantistici si trova ad affrontare una questione particolarmente insidiosa dal punto di vista fiscale: quando un compenso corrisposto agli amministratori può considerarsi sproporzionato e, di conseguenza, configurare una distribuzione indiretta di utili? La normativa vigente offre parametri di valutazione non sempre cristallini, lasciando spazio a interpretazioni diverse che, nella pratica applicativa, possono comportare conseguenze devastanti per il mantenimento dello status di ente sportivo dilettantistico.

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Il quadro normativo di riferimento e le sue implicazioni

La disciplina trova la sua fonte primaria nell’articolo 8 del D.Lgs. 36/2021, come modificato dal D.Lgs. 163/2022 – provvedimento entrato in vigore il 17 novembre 2022. Secondo quanto previsto dal primo comma, le Associazioni Sportive Dilettantistiche (ASD) e le Società Sportive Dilettantistiche (SSD) sono tenute a destinare eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente allo svolgimento dell’attività statutaria oppure all’incremento del proprio patrimonio.

Il secondo comma dell’articolo 8 introduce però un divieto categorico: è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati. Questo divieto si estende non solo ai soci o associati, ma anche – e qui sta il punto nevralgico – a lavoratori, collaboratori, amministratori e altri componenti degli organi sociali. Si tratta di una previsione che, nella sua ampiezza, abbraccia qualsiasi ipotesi di scioglimento del rapporto.

Il rinvio alla disciplina dell’impresa sociale

La norma opera un rinvio espresso all’articolo 3, comma 2, ultimo periodo, e comma 2-bis del D.Lgs. 112/2017. È qui che si trova l’elencazione delle fattispecie considerate, in via presuntiva, distribuzione indiretta di utili. L’elenco, come spesso accade nella tecnica legislativa italiana, risulta piuttosto articolato e… diciamo così, non sempre di immediata comprensione per l’operatore pratico.

Al primo punto dell’elenco – quello che maggiormente ci interessa – troviamo la corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze. In alternativa, sono considerati sproporzionati quei compensi che risultino “comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni”.

I principi di inerenza e antieconomicità nella giurisprudenza di legittimità

La questione si complica ulteriormente quando si cerca di comprendere come applicare concretamente questi parametri. La Corte di Cassazione ha fornito orientamenti che, seppur consolidati, richiedono un’attenta valutazione caso per caso.

L’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale

Con l’ordinanza n. 450/2018, la Suprema Corte ha operato un significativo riallineamento della nozione fiscale di inerenza, affermando che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”. Questo orientamento esclude ogni valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale o indiretta – o di congruità, stabilendo che “il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.

L’ordinanza n. 3170/2018 ha poi precisato – e questo aspetto merita particolare attenzione – che esula dal giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità”. Tuttavia, questi parametri “non sono espressione dell’inerenza ma costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito”.

La sentenza n. 18904/2018 ha fornito indicazioni ancora più dettagliate. Secondo i giudici di Piazza Cavour, resta fermo che l’Amministrazione finanziaria può “contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa”. In questo caso, però, “è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali”.

La distinzione tra inerenza e congruità

Il punto cruciale – e qui la questione si fa davvero complessa – riguarda il rapporto tra inerenza e congruità. Secondo la Cassazione, il giudizio quantitativo o di congruità “si colloca su un diverso piano logico e strutturale, intrecciandosi con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza del costo”.

Come ha chiarito la stessa Corte, “l’inerenza è… un giudizio; la prova, dunque, deve investire i fatti costitutivi del costo”. L’oggetto del giudizio di congruità è, invece, “un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito”.

Tra inerenza e congruità “è configurabile un nesso tra i due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa”.

La valutazione della congruità dei compensi: prassi e orientamenti

Il tema della valutazione di congruità dei compensi agli amministratori ha trovato nella risoluzione n. 113/E/2012 dell’Agenzia delle Entrate un primo significativo punto di riferimento. Il documento ha stabilito che “l’amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei componenti negativi di cui si tratta in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”.

L’orientamento consolidato della Cassazione

La giurisprudenza di legittimità si è espressa con continuità su questo tema. Già con la sentenza n. 12813/2000, la Corte di Cassazione aveva ritenuto il compenso soggetto alla valutazione di “congruità”, in rapporto alle dimensioni dell’impresa. Per i giudici supremi, la riconosciuta deducibilità fiscale “non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall’invalidità di tali atti sotto il profilo civilistico”.

L’orientamento è stato successivamente confermato dalla sentenza n. 13478/2001, secondo cui “l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa”.

Nell’ultimo decennio, la Cassazione ha mantenuto saldo questo orientamento. L’ordinanza n. 3243/2013 ha ribadito che la deducibilità dei compensi degli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti… rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.

Le problematiche applicative e le possibili soluzioni

La questione presenta profili di particolare complessità nella pratica professionale. I parametri fissati dal legislatore – proporzionalità all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze – sono criteri “aperti” che lasciano ampio margine di discrezionalità agli organi di controllo.

I rischi connessi alle contestazioni fiscali

Eventuali contestazioni fiscali potrebbero determinare il disconoscimento del carattere non lucrativo dell’attività svolta, con conseguente perdita dello status di ente sportivo dilettantistico e delle relative agevolazioni fiscali. Si tratta di un rischio che, nella prassi applicativa, spesso induce gli enti a mantenere compensi particolarmente contenuti, anche quando le dimensioni e la complessità dell’attività svolta giustificherebbero retribuzioni più adeguate.

Verso una possibile soluzione legislativa

La questione potrebbe trovare soluzione attraverso un intervento legislativo che ancori, “a priori”, sulla base di una scala parametrica, i compensi degli amministratori al volume d’affari dell’associazione. Come tutte le scelte forfetarie, tale soluzione presenterebbe dei limiti, ma eviterebbe di costringere la Corte di Cassazione “ad emettere giudizi di equità che non le competono e a riempire vuoti che solo la legge potrebbe riempire in funzione antielusiva”.

Agli svantaggi del forfait farebbe riscontro, da una parte la semplicità della norma – da tutti auspicata e spesso poi poco attuata – e dall’altra la certezza per il contribuente che tale costo non possa essere sottoposto al “vaglio di congruità” di nessun verificatore.

Gli abusi, che continuano a esistere, possono essere contrastati solo con interventi legislativi mirati, evitando quello che potremmo definire il “turismo fiscale” interpretativo: per alcuni uffici la non congruità potrebbe essere fissata a 40, per altri a 70, mentre in altri casi ancora il compenso dedotto potrebbe essere considerato congruo.

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